Un inviato a Sanremo - Day 1
Ansa/Claudio Onorati
Televisione

Un inviato a Sanremo - Day 1

L'arrivo, il primo impatto, l'Ariston, la sala stampa - Social #Sanremo - Prima serata: le pagelle e le esibizioni

“La città dei fiori” è uno di quegli epiteti che suonano falsi lontano un miglio. Invece, a una galleria di distanza, venendo da Genova, l’odore dei fiori si rende una presenza reale, facendo dell’aria qualcosa di “francese”.

Una rapida ricognizione delle posizioni dei punti vitali stabilisce la drammatica e prevedibile verità: tra il mio albergo e l’Ariston, la tentazione delle tentazioni, il casinò.

È la fine, è evidente, il vero obiettivo di questi giorni non sarà sopravvivere al Festival, ma sarà non giocarsi tutto lì dentro, immaginandomi di essere a Las Vegas. Si rende necessaria una strategia, un percorso alternativo che mi tenga lontano da quel luogo di perdizione.
Infatti, al ritorno passo dalla passeggiata sul mare. La passeggiata, con le palme tremolanti, davanti a un mare su cui si specchia il cielo plumbeo, addensa una foschia da stilema. Il mare d’inverno, come cantava Mia Martini, è solo un film in bianco e nero visto alla tv.

Mentre mi sembra di afferrare un momento privato di malinconia, mi si avvicina un arzillo settantenne, che indicando l’accredito che porto al collo mi domanda: “sei un cantante famoso?”

“No”.

“Sei un cantante giovane?”

“Nemmeno”

“E cosa fai qua?”

“Bella domanda”

“?”

“Scrivo”.

“Canzoni?”

Impossibile chiarire l’equivoco, anche perché Gino (come dice di chiamarsi) inizia a cantare Ma come fanno i marinai e io, trascinato dal vortice, mi trovo a cantare insieme a lui, che alla strofa “Ma come fanno i marinai a baciarsi fra di loro e a rimanere veri uomini però” ammicca, con l’aria di chi la sa lunga.

Sostiene di essere “un marinaio senza barca” e sostiene che dovrei assolutamente provare l’esperienza di fare il bagno d’inverno.

Obietto che mi verrebbe una sincope, ma oppone teorie per cui, “una volta entrato, non senti più niente”.

Gli dico che temo sia vero, ma non sembra convincersene.

Mi appello al fatto di non avere con me il costume da bagno, lo saluto e mi avvio verso l’Ariston.

Le ore prima del Festival vorrebbero essere ore di attesa febbrile. Sanremo è la nostra coscienza collettiva, nel bene e nel male, ci connette con il nostro Paese, col nostro passato e col nostro futuro.

E questa festa pacchiana, in una riviera infreddolita e malinconica, è la nostra fotografia, fatiscente e fatua.

Camminando, si oltrepassa lo squallore dei mille Miramare, hotel, pizzerie, stabilimenti, tutti con nomi  invariabilmente prevedibili, tutti che espongono foto di piatti caldi e pizze sbiadite, appetitosi solo per turisti tedeschi. Vicino alla ringhiera, passeggia un aristocratico ottantenne, in testa un cappello da capitano, vestito di tutto punto, con un bastone dal manico in argento e una sgargiante pochette da taschino. Quando si ferma a baciare la mano a una signora, di qualche anno più giovane, seduta su una panchina, come un gentiluomo d’altri tempi, rivela la commovente fragilità delle sue scarpe da ginnastica con gli strappi, che devono essere per il suo animo nobile un’orrenda, ma necessaria umiliazione, per mantenersi autosufficiente.

Arrivati nel centro di Sanremo, C.so Matteotti è la via dello struscio, uguale alla via dello struscio di ogni paese e di ogni città, ogni due passi i soliti improbabili truffatori che chiedono soldi per la cause più inverosimili. In questo caso, dopo aver bofonchiato qualcosa sui profughi di non so dove, scandiscono “un contributo per Sanremo”. Meglio non approfondire, e passare oltre.

Gli eventi così, a parte un numero invidiabile di vip, veri o presunti, richiamano in gran numero personaggi equivoci in cerca di visibilità o di un po’ di calore. Un sosia di Renato Zero e un sosia di Beppe Grillo fanno la staffetta gridando “sorcini, venite” e mandando a qual paese i politici tutti.

Davanti all’Ariston, attorno al red carpet dall’aria scalcinata, un gran numero di dandy sociopatici, uomini che hanno sbagliato la tinta per capelli, e appaiono come maschere cuoiose per le troppe lampade, e donne svestite che ostentano una mercanzia che nessun intenditore vorrebbe acquistare.

Una mamma filma il figlio col telefonino, incitandolo a ballare la breakdance cercando di catturare l’attenzione dei mille giornalisti o giornalistuccoli che si aggirano armati di telecamere. “Se ce l’ha fatta Justin Bieber”, mi dice, “anche il piccolo Kevin può diventare virale”.

Arrivare in sala stampa è un percorso a ostacoli, ma alla fine, dopo aver superato i controlli e aggirato la fiumana di gente asserragliata davanti all’entrata per vedere le celebrity, o in coda per acquistare gli ultimi biglietti rimasti, finalmente, il buffet. Cioè il cuore pulsante della sala stampa. Raviolini, fette di salame, grissini e dolcetto. D’altra parte è la Rai, mica Non è la Rai. Affrontata con successo la battaglia per i piattini, chiacchierando coi veterani, scopro che non tutti i giornalisti sono uguali. Alcuni sono più uguali degli altri. “Tu in che fila sei?”

“In che senso?”

Tutto dipende dalla fila, ragazzo”.

E mi spiegano che, in buona sostanza, com’era intuibile, più avanti sei, più conti.

Perché è da qui che seguiremo il Festival, principalmente. Un grosso stanzone con tavoli e connessione wifi con un megaschermo composto da 36 monitor lcd. “Ma come”, domando “sarebbe meglio guardarlo da casa sul divano”? “no”, risponde il mio nuovo mentore, un attempato giornalista di una irrivelabile testata che durante la diretta tenterà di trascinare tutta la sala stampa in un baccanale durante il pezzo di Frankie HI NRG al grido di “pedala, pedala”, “qui è più grande”.

Scopro di essere in quarta fila.

“Non male, per un novellino”, mi dice lui, andando orgogliosamente a sistemarsi in terza fila.

Una volta seduti, sembra davvero di trovarsi in un grande salotto a guardare i mondiali con gli amici, tanto che qualcuno avanza il desiderio di ordinare una pizza e una birra Moretti, ma si trattiene.

Il clima è talmente scolastico che un puntiglioso “Preside” ricorda con pedanteria i meccanismi di voto della giuria di qualità, suscitando ogni volta i commenti sarcastici e gli insulti anonimi di qualcuno dal fondo, salvo poi costringerlo a riprendere qualche votante distratto al termine di ogni votazione, perché qualcosa è andato storto.

Abbandonare la sala stampa per entrare dentro l’ Ariston è come vedere la Gioconda: è molto più piccolo di quel che ci si aspettava. Sul palco, la mastodontica figura di Cristiano De Andrè, l’eterno ragazzo oggi diventato un uomo, ingrassato dopo aver smesso di fumare, caracollante, incerto, che canta le sue canzoni disperate con disperazione.

Uno spettacolo sublime, senza ironia.

Tra un brano e l’altro, il brulicante lavorio del dietro le quinte, la rapidità fantasma delle decine di persone che rendono oliati i meccanismi televisivi, agendo furtivi nell’ombra.

I commenti, intorno, sono tutti per le sbruffonate di Grillo, per lo stop iniziale per la lettura della lettera disperata di chi ha perso il lavoro. Supposizioni su quanto sarà furibondo Fazio. Una lettura respinta da quelli che dicono che in realtà l’interruzione ha disinnescato Grillo.

Corrono, per la platea, i commenti maligni, preoccupati, sensazionalistici, che ammorbano la nostra festa nazionale trasformandola nel crogiolo di letture politiche che non vuole nessuno, a parole, ma che tutti contribuiscono a creare nei fatti. Eppure, basta uscire un attimo sul terrazzo, in cima all’Ariston, a prendere una boccata d’aria, per godersi lo spettacolo della via sottostante ormai quasi deserta, attraverso la trama di un nastro di lucine intermittenti che rendono la visione favolesca.

E riveder le stelle. Perché Sanremo, è Sanremo.

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Marco Cubeddu

Nato a Genova nel 1987, vive a Roma, è caporedattore di Nuovi Argomenti e ha pubblicato i romanzi Con una bomba a mano sul cuore (Mondadori 2013) e Pornokiller (Mondadori 2015). Credits foto: Giulia Ferrando

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