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Tiger lady, uome, donne maya o donne alfa: sono la nuova generazione di fanciulle cresciute con il mito della parità

Una volta c’erano le uome. Come Margaret Thatcher, che di donne nel suo cabinet non ne volle mai neppure una e definiva "veleno" il femminismo. O Marina Salamon, di cui per usare un eufemismo si diceva: "È molto franca" (licenziò una dipendente che in una email aveva scritto: "La capa sta sclerando"). O, più folcloristiche, come Daniela Di Sotto, l’ex signora Fini che all’indomani delle voci di love story tra Stefania Prestigiacomo e il marito chiosava su un settimanale: "Adoro sparare. Ho tre pistole, una 38, una 9 corto, e una 6,35, piccolissima. La porto la sera, quando esco da sola". Donne il cui archetipo era la valchiria e che gli affari, o la politica, la facevano da uomini, circondandosi di uomini e maltrattando le colleghe. Del resto, per dirla con Ute Ehrhardt, una di quelle che hanno codificato la "bontà della stronzaggine", "le brave ragazze vanno in paradiso, le cattive dappertutto". Negli Usa anni Ottanta venivano chiamate tiger lady, queste donne che sul lavoro portavano camicie con il fioccone a simulare la cravatta maschile. Donne picchiatrici, che piacciono all’uomo di destra perché riproducono il mito del guerriero con guerriera, e a quello di sinistra perché perfetto compimento del proprio masochismo.

Ora però, a cinquant’anni da The Feminine Mystique di Betty Friedan, il manifesto femminista che accusando le donne americane di avere rinunciato ai propri sogni di realizzazione professionale per dedicarsi alla maternità e alla vita casalinga diede vita alla seconda ondata del femminismo, s’avanza una nuova generazione di fanciulle. "Donne Alfa" le chiama il settimanale Time, ma anche "donne maya" (come la protagonista di Zero Dark Thirty, il cui equivalente seriale è la Carrie Mathison di Homeland). Donne che essendo cresciute con l’aspettativa della parità oggi la pretendono come un’ovvietà. Donne che, in un’America dove nel 2010 le donne per la prima volta hanno superato gli uomini nella composizione della forza lavoro, fanno una crepa nel soffitto di cristallo antiproiettile, irrompendo nel boys’ club della sicurezza nazionale americana. Come Julia Pearson, cui Barack Obama ha appena affidato la propria sicurezza personale. O Lisa Monaco, consigliere della Casa Bianca per l’antiterrorismo.

Per non parlare dell’hi-tech, dove il boys’ club è un ricordo ormai sbiadito. Il top manager di Silicon Valley e dintorni è una donna che, messi in naftalina i travestimenti da uomo, sottolinea la propria femminilità. Per esempio con i vestiti a fiori, o altre fantasie più o meno tremende, di Marissa Mayer (37 anni), già prima ingegnere donna in Google, nominata amministratore delegato della Yahoo! mentre era incinta (e da quando ne ha preso le redini le azioni non fanno che salire). O con il tacco 12 (Prada) di Sheryl Sandberg, 44enne numero due di Facebook e quinta donna più potente al mondo nella classifica di Forbes (dove precede anche Michelle Obama), che lascia la scrivania alle 5 e mezzo in punto.

È la recessione del maschio, specie in via d’estinzione più dell’orangutan di Sumatra, almeno a giudicare dai volumi che ne sviscerano le cause. Qualche mese fa, per dire, sugli scaffali americani furoreggiava Man Up! Breviario di virilità per negati (genere Kevin Kline che balla I will survive nel test per veri machi di In & Out) con domande apocalittiche tipo: "Ho davvero bisogno di usare il balsamo?". Perché, se nel 2016 le donne americane vanteranno il 60 per cento delle lauree, il 63 per cento dei master e il 54 per cento dei dottorati, sul fronte clinico questi dati trovano riscontro nel crollo della fertilità maschile, con la produzione di spermatozoi addirittura dimezzata negli ultimi 50 anni.

Poi, si sa, ogni progresso delle donne scatena le altre donne, a volte pure giustamente. Maureen Dowd, editorialista del New York Times, ha archiviato sia Mayer sia Sandberg alla voce "classiche riccone viziate". La prima per avere rinunciato al congedo di maternità, aver abolito il telelavoro (tra le più importanti conquiste femminili, oltre che caposaldo della new economy) e aver bollato il femminismo come una «palla al piede». L’altra per essersi proposta come novella Betty Friedan con «un manifesto» che spiega alle donne come fare carriera: Lean in, ovvero fatevi avanti, fatevi sotto. Risposta di Dowd: "Scendi dalla nuvola".

Giusto, per carità. Tuttavia, che il femminismo sia un po’ una palla al piede l’ha detto pure Hanna Rosin, che in termini d’impatto, con il suo The end of men, è forse la vera erede di Friedan (e di Simone de Beauvoir, Susan Faludi e Naomi Wolf). Collaboratrice di The Atlantic, 42 anni, Rosin ritiene il femminismo tradizionale obsoleto, perché "non rappresenta né aiuta le donne del Duemila". Motivo per cui, dice, "si dovrebbe chiamarlo in altro modo".

Eresia? Chissà. Tanto più che, a differenza che in passato e per quanto malamente (vedi Sandberg), le donne oggi per la prima volta stanno facendo rete. "E proprio il fare rete accomuna la cultura americana alla nostra, arretratissima" spiega la sociologa Chiara Saraceno. Così in Italia, dove la nuova generazione di top manager donne include persone come Laura Burdese dello Swatch Group Italia, Frida Giannini della Gucci o Patrizia Ravaioli della Croce rossa italiana, oggi è tutto un fiorire di movimenti di mutuo aiuto. Dalle manager di Valore D (che non a caso adorano Sandberg), a Doppia difesa di Giulia Bongiorno e Michelle Hunziker, a Pari e dispare di Emma Bonino ("Perché in Italia nasciamo pari e diventiamo dispare"). "Non più solo autopromozione" sottolinea Saraceno "ma promozione collettiva. Quand’ero ragazza io, questo non c’era. Grandi successi non ce ne sono stati, però ogni volta le donne sono lì a far squadra".

Già, i successi. Quando da noi c’è in palio un posto di responsabilità, le donne al massimo diventano una categoria generica. Si dice: "Prodi, Marini, Amato, oppure una donna" per il Colle. Senza pensare all’abisso di differenze tra una Bonino e una Loretta Napoleoni. Una vale una. Del resto parliamo ancora delle "quote". Così Bianca Beccalli, sociologa di genere secondo cui la "stronzaggine" femminile è tutt’altro che finita ("Si guardi alla cattiveria di certe vigilesse"), mentre definisce la gaffe sui 10 saggi maschi di Giorgio Napolitano come "la classica reazione al martelletto del neurologo", mette in guardia dai rischi della cooptazione. "Negli Stati Uniti, in un gruppo di saggi ce ne sarebbero stati minimo uno nero, una donna e uno ispanico. Le donne prese come simbolo di una categoria normalmente esclusa per far vedere che si è bravi, mentre in realtà non cambia nulla".

"We want sex equality" recitava nel 1968 un celebre cartello delle operaie alle macchine da cucire della Ford, in Gran Bretagna. Giusto qualche anno dopo, nel 2011, l’assertiva associazione La metà di tutto di Chicca Olivetti scriveva una lettera aperta a Napolitano per chiedere (Chiedere? Sarà forse qui il problema?) un’adeguata presenza di donne nel nuovo esecutivo Monti. Finì con lui che disse a Elsa Fornero: "Commuoviti ma correggimi". Per dirla con Saraceno, "il problema non sono le quote rosa, ma le quote blu, ovvero il monopolio maschile".

P.S. Durante la redazione di questo articolo l’orangutan di Sumatra si è estinto.

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