Sanremo 2016 Madalina Ghenea
Ansa
Lifestyle

Sanremo: (non) sono solo canzonette

Moderazione e tranquillità, musica e intrattenimento, senza pretese e senza eccessi. Una festa di Paese, un Festival quasi perfetto: manca solo Vessicchio.

Come Natale, Pasqua e Ferragosto, anche quest'anno, come ogni anno, è tornato Sanremo.

Non capirò mai chi ne lamenta la paludata essenza nazionalpopolare: Sanremo è quel che deve essere, maledetto sia chi tenta di trasformarlo in qualcosa di diverso da uno spettacolo che deve alla medietà la sua longevità, all'estetica "da Rai 1" i suoi comunque considerevoli ascolti.

Questo siamo stati, questo siamo, questo vogliamo continuare ad essere: chi non gradisce guardi La7, o taccia per sempre!

Basta la carrellata iniziale dei vincitori delle edizioni passate a farci sentire parte di una storia - la nostra - personale e collettiva: qual è il Festival in cui siamo nati? Quale il primo che ci ricordiamo? Quale quello dimenticato (e dove e con chi eravamo in quel periodo, quell'anno, lontano dal divano)?

L'allegra brigata sul palco

Tra la Miss Universo di Youth di Sorrentino (ne conoscevamo il fondoschiena della locandina, è quasi spaesante vederne la faccia), Garko che tenta di darsi un tono, nonostante abbia evidentemente sbagliato la tinta, per scongiurare la parola "valletto" che aleggia su di lui ogni volta che si definisce la sua bambolesca presenza "co-conduzione", e una finta Sabrina Ferilli interpretata da una Virginia Raffaele in gran spolvero, Carlo Conti, sobrio mattatore della serata, disteso, rilassato, è il direttore d'orchestra capace di nascondersi nella buca per dare spazio ai suoi musicisti, e regalare al pubblico un'apertura del Festival che fila liscia come l'olio.

Le canzoni, finora, sembrano tutt'altro che memorabili, così come le esibizioni degli artisti in gara, tra Morgan senza voce, Noemi che interpreta una versione scadente di Quello che le donne non dicono estraendo un sacco di banalità da una metaforica borsetta stile Mary Poppins, Enrico Ruggeri che sembra il protagonista di Breaking Bad, e quelle degli ospiti internazionali, come Elton John che da lontano (ma anche da vicino) sembra la versione queer di Claudio Lippi.



Le apoteosi

Ma che importa?

Nel complesso, è tutto come deve essere, e nella serata si annoverano almeno due momenti indimenticabili:

1) Il ritorno all'Ariston di Laura Pausini, che duetta con la se stessa del '93: simpatica, commossa, una leader capace di sembrare la figlia, la moglie e la madre ideale di ogni spettatore, un'eterna ragazza completamente padrona di se stessa e del palco, a "casa sua" come nel mondo.

2) Il corridore secolare, lucidissimo, che dichiara di allenarsi in palestra tre volte a settimana e spiega a un teatro che si alza in piedi per rendergli omaggio la composizione del suo elisir di lunga vita: "L'amore per Alba", sua moglie, "l'insalata" e "la curiosità", cui andrebbe aggiunta l'eleganza d'altri tempi, testimoniata, ad esempio, dalla struttura deliziosa di una frase come questa: "Io sono stato in aviazione, ma quando passa un aereo occorre che lo veda", poco prima di intonare Vecchio scarpone.

Unico campanello d'allarme di una conduzione che ci porterà fino al Dopofestival - finalmente ripristinato e ripensato con una struttura tradizionale, solo lievemente rinfrescata dalla Gialappa's - lo spettro, sgradevole, forse inevitabile segno dei tempi, ma comunque preoccupante, dei social network.

Possibile che nelle presentazioni degli ospiti, nelle slide riassuntive, nei resoconti orali, debbano rientrare i conti dei "follower" e delle "visualizzazioni"?

Darwinismo in formato tv

Comprensibile che la televisione voglia raggiungere pubblici giovani, e che Sanremo tenti di ricollocarsi come show appetibile anche per un target millennial (brrrr), come testimoniano l'ormai consueta e massiccia presenza di cantanti provenienti dai talent e le pubblicità di S. Valentino, negli intervalli, che promuovono lubrificanti "per rompere gli schemi" (ogni sottointeso è a carico vostro) e aforismi di Fedez per i Baci Perugina. Ma la natura di Sanremo, e della televisione generalista in genere, è un'altra, alla quale non si dovrebbe voler sfuggire: quella rappresentata dagli spot di antifurto e yogurt per andare di corpo, rivolti a pensionati e "famiglie tradizionali".

Quel pubblico non evoluto che permette ai comici seduti tra il pubblico (impararne il nome richiederebbe troppa fatica, la loro mediocrità, agghiacciante, impone la rimozione totale della loro esistenza) di fare battute che non sarebbero risultate incisive neanche ai tempi d'oro del Bagaglino e ad Aldo, Giovanni e Giacomo di annoiarci e imbarazzarci riproponendo svogliatamente un loro sketch di lustri fa.

La televisione, come Sanremo, dovrebbe accettare l'inevitabile estinzione, la sua natura reazionaria, il suo scollamento dalla realtà.

A nessuno piace l'idea di essere roba da museo, ma questo è quanto, fermare il declino non è possibile, e rallentarlo rende tutto solo più doloroso. Il futuro non è della televisione, né di Sanremo, né di chi, come noi, lo guarda ogni anno.

Siamo condannati, accettiamolo.

E godiamoci questi ultimi anni senza affannarci, restiamo uniti, come ci ricorda la divina Laura, il nostro mondo di ieri esisterà ancora per un po', almeno fino a quando, contemporaneamente, su milioni di divani italiani, verrà pronunciata la domanda/manifesto (pre)generazionale: "Che fine ha fatto Beppe Vessicchio?"


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Marco Cubeddu

Nato a Genova nel 1987, vive a Roma, è caporedattore di Nuovi Argomenti e ha pubblicato i romanzi Con una bomba a mano sul cuore (Mondadori 2013) e Pornokiller (Mondadori 2015). Credits foto: Giulia Ferrando

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