Morire di pioggia, inaccettabile destino
ANSA /Pina Orrù
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Morire di pioggia, inaccettabile destino

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Bombe d’acqua sulla Sardegna. Un bombardamento. E come sempre, la misura del disastro per i rilevamenti statistici e per la conta giornalistica è data dai numeri: a oggi sono 16 i morti accertati, fra i quali 4 bambini, 2 dispersi e 2.737 sfollati. Se spacchettiamo questi numeri, troviamo indirizzi, nomi, cognomi, professioni, legami.

Nelle tragedie naturali, come recentemente nelle Filippine, gli spaventosi ordini di grandezza e i chilometri di distanza permettono solo una ricostruzione di storie a campione. E questa freddezza statistica ci rassicura, in un certo senso, perché rende impossibile dipanare i fili dei percorsi individuali dalla matassa delle vittime numeriche e trasformare quei numeri in storie.

Invece, paradossalmente, è proprio nei numeri fortunatamente più contenuti, che proviamo un dolore maggiore, frutto di una maggiore immedesimazione. Sono i dettagli a rendere struggenti le esistenze altrui. Fino a che non li conosciamo, è solo statistica. Come entriamo in contatto con i dettagli, eccoci dentro alle storie.

Come quella di Patrizia Corona, 42 anni, con la figlia Morgana di 2. Si trovavano a bordo di una Smart quando sono state travolte dall’acqua a Bandinu. Dove andavano? Quanto mancava perché si riuscissero a mettersi al sicuro? E chi era stato l’ultimo a rientrare in una famiglia di brasiliani di Arzachena, rimasti intrappolati nel seminterrato dove abitavano e affogati senza possibilità di scampo? Qual è l’ultima cosa che si sono detti Francesco Mazzoccu, di 35 anni, e suo figlio di tre, prima di morire lungo la strada che porta a Telti?

Sono il seminterrato, la Smart, la strada di Telti, a rendere tutto agghiacciante. Pensare al cigolìo di una porta, all’ultima notizia sentita per radio, all’ultimo sms o al primo inviato da un conoscente ancora ignaro.

È vero, la morte conserva sempre qualcosa di inaccettabile per chi ne viene toccato da vicino. Ma morire di pioggia, lascia il sapore della sfortunata coincidenza che rende tutto più irrisolto, un finale sospeso tra i “se avessi” e i “se solo”.

Perché se la bomba è una bomba a mano, nella tragedia, nell’insensatezza di un conflitto armato o nella glorificazione postuma, comunque la si pensi, stiamo affrontando qualcosa di narrativamente razionale, se non altro per tutti i film di guerra, fatti di cause ed effetti, che abbiamo visto al cinema. Ma quando la bomba è una bomba d’acqua, l’irrazionalità e l’imponderabilità prendono il sopravvento. E danno seguito a interrogativi potenzialmente infiniti: quanto gli pesava l’inizio settimana? Si sarebbe laureato? Avrebbe sofferto per il divorzio? Quando avrebbe trovato di nuovo un lavoro? Avrebbe fatto la settimana bianca quest’inverno? Cosa avrebbe mangiato per cena?

Si tende, in questi casi, a pensare che il bisogno di consolazione appartenga a una terra intera.

Invece, più che del macro insieme sociologico (i sardi, i filippini) le tragedie sono sempre personali. Mi vengono in mente i giorni dell’alluvione di Genova del novembre 2011. Ricevevo telefonate di amici e parenti sardi allarmati dalle immagini apocalittiche di una città nel caos. Ed era quasi imbarazzante spiegare che, abitando in discesa e lontano dai fiumi, come la maggior parte dei miei concittadini, ho vissuto quelle drammatiche ore, soggettivamente, solo come una forte pioggia.

Allo stesso modo, oggi che tocca a me telefonare, c’è chi mi racconta dei disastri che ha subito, fortunatamente non irrimediabili, e ricostruisce con amarezza la sorte meno fortunata di un vicino di casa. E chi, impegnato a finire del lavoro arretrato, è rimasto nel suo studio tutto il tempo e quindi, se non minimizza, quantomeno è portato a rassicurare.

In questi momenti di uragano, che col passare dei mesi e degli anni tenderanno a riassumersi sotto il cappello della memoria collettiva, oltre ai doverosi bilanci e i doverosi accertamenti di eventuali responsabilità legate all’incuria e alla cattiva gestione del territorio, sarebbe importante conservare quel dedalo di storie tragiche e storie fortunate, di coraggio e di casualità, di paura e di orgoglio che rappresentano la dialettica contraddittoria degli eventi.

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Marco Cubeddu

Nato a Genova nel 1987, vive a Roma, è caporedattore di Nuovi Argomenti e ha pubblicato i romanzi Con una bomba a mano sul cuore (Mondadori 2013) e Pornokiller (Mondadori 2015). Credits foto: Giulia Ferrando

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