Masterchef mi diverte, però la realtà è un'altra cosa
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Masterchef mi diverte, però la realtà è un'altra cosa

Valentina, 27 anni, ex studentessa di filosofia: "Stare in cucina è come stare nell’esercito, con ferree regole di ingaggio"

"Anche io guardo Masterchef. Mi diverte. Però la cucina è un’altra cosa. Quella è una cucina casalinga spacciata per alta cucina. La gente pensa che vai a cena da Cracco, compri il suo libro, poi torni a casa e fai la sua insalata russa caramellata. I concorrenti di Masterchef quando escono da lì sembra che siamo subito pronti, aprono ristoranti, scrivono libri... Ma un vero cuoco, negli anni della sua formazione, altro che scriverli i libri, non ha neanche tempo di leggerli".

A parlare è Valentina Montebello, 27 anni, di Perugia, ex studentessa di filosofia a Torino. Sulla carta la concorrente ideale di Masterchef. Fino a poco tempo fa era una ragazza pallida, inquieta, che trascorreva la sue giornate nel disordine del suo appartamento da fuori sede, leggendo filosofi esistenzialisti e poeti surrealisti. Abbastanza per passare il primo provino. Al secondo le sarebbe bastato raccontare di quando "al ristorante con mio padre mangiavo le interiora di pecora, anche se avevano un odore fortissimo e lui era orgoglioso perché non mi facevo spaventare".

Adolescente schiva, spaesata, alla disperata ricerca di un posto nel mondo. Finito il liceo classico tenta l’università fuori sede, per emanciparsi dalle mura domestiche e fuggire i fantasmi legati a una piccola città deliziosa e futile, incapace di accogliere il suo incontenibile bisogno di risposte e di esattezza senza travolgerla con un’estetica alla Baci Perugina. Il gorgo burocratico e inconcludente dell’università diventa un vortice che minaccia di inghiottirla. Fatica a dare gli esami e va fuori corso. Non riesce a prendere la patente, non lavora, si divide tra un corso di organizzazione di eventi e un workshop di fotografia. L’unica cosa che fa, con costanza, è preparare da mangiare, pranzi e cene che diventano esercizi maniacali.

"Il cibo è una cosa potente, è piacere e bellezza, io non l’ho mai visto veramente legato alla sussistenza". Quando decide di voler trasformare la sua passione in mestiere sembra l’ennesimo capriccio di una ragazzina viziata, il bersaglio ideale per i vari arcieri della sociologia con il cuore da burocrati e una faretra piena di etichette: bambocciona, choosy, sdraiata!

L’effetto Masterchef ha travolto anche le scuole di formazione culinaria più prestigiose (e costose), come Alma, la scuola di Gualtiero Marchesi a Colorno (Parma), costretta a doppi turni per assorbire le richieste che ne affollano la segreteria. Ma lontano dai tempi televisivi il corso è più duro del previsto. Si tratta di imparare proprietà e caratteristiche degli alimenti e passare giornate a tagliare quintali di cipolle, sezionare sedani, pelare patate, disossare agnelli e piccioni. Eppure, per la prima volta in vita sua, Valentina si sente a suo agio.
"Penso sia il fatto che in cucina ogni giorno tutto torna al suo posto. Tu prepari delle cose, queste cose vengono servite a delle persone e, sia che piacciano sia che non piacciano, visto che in cucina, come nella vita, gli errori sono quotidiani e i piatti non sono mai uguali, tutto torna in plonge (il posto dove vengono lavati i piatti, ndr), viene lavato e rimesso a posto".

Nel primo ristorante in cui lavora, l’impatto con il mondo reale e con le aberrazioni gastronomiche di uno chef caduto in disgrazia a causa della crisi la mette di fronte a continue violazioni di ogni codice etico e sanitario. Però, nonostante le volte in cui si fa congelare le lacrime nella cella frigorifera, non molla. E quando finalmente torna a Perugia è cambiata. Ottiene un posto da stagista al castello di Monterone, poco fuori città, in un’imponente fortezza trasformata in albergo di lusso che ospita Il Postale, ristorante stellato dello chef Marco Bistarelli, a sua volta allievo di Marchesi.

E siccome il castello è un po’ fuori mano, nelle ore libere va a scuola guida e prende la patente. E visto che è sempre stata disordinata, a casa si allena a rifare il letto, un gesto minuto fino ad allora sconosciuto. "Un professionista è uno che ha il suo metodo per ottenere un risultato facendo meno gesti possibile. Servono organizzazione e disciplina, soprattutto psichica, non solo nel cucinare, ma anche nell’ordinare il frigorifero e la mise en place. È una questione di esattezza. E di orgoglio della divisa. Io non sono mai stata così stanca in tutta la mia vita. Però è una cosa bella essere stanchi".
All’inizio osserva, sbuccia, assaggia. "La prima volta che ho assaggiato il ragù di faraona dello chef ho avuto un attimo di commozione, perché per me il cibo è legato al piacere in modo viscerale". E scopre che una cucina stellata è molto diversa dagli studi televisivi. La colonna sonora è come quella di una sala macchine. L’assenza di montaggio obbliga a seguire la cottura di un fondo per 12 ore, filtrare, e ricominciare daccapo. E i propri personaggi devono essere raccontati tra una pausa sigaretta e l’altra.

Più di tutto, all’inizio, significa spersonalizzarsi, mettere la cucina al di sopra di ogni cosa. Quello che conta è che il piatto arrivi al tavolo. "È come arruolarsi nell’esercito. Esistono regole d’ingaggio ferree e una catena di comando in cui lo chef/generale ha sempre ragione. Non a caso lo staff si chiama 'brigata' e le divise sono mutuate dalle divisioni militari, anche se i soldati sembrano più una squadriglia di mercenari, ognuno col suo grembiule con gli stemmi degli eserciti in cui ha servito. Siano cucine straniere, apprendistati da grandi maestri, scuole prestigiose o bettole, sono i fregi di grandi battaglie e galloni conquistati sul campo. In cucina, come in guerra, ci sono momenti morti buoni per pianificare le future difficoltà logistiche, stoccare gli approvvigionamenti e addestrare la truppa, e momenti d’azione in cui tutto deve svolgersi secondo i piani, pena venire sconfitti. Ogni sera, stipulato il trattato di pace con i clienti, si fa il bilancio dei feriti e dei caduti, si confrontano forme e dimensioni delle bruciature".

Fondamentale, per evitare la sconfitta, è conoscere bene la propria squadra. Nella legione straniera in cui si è arruolata Valentina c’è Anna, la pasticcera, che risponde alla molestie con burro spray e accendino, allontanando a fiammate gli importuni. C’è Luca, il sous chef, che fa a gara a chi sfiletta più orate in mezz’ora. C’è lo stagista nuovo che quando fa scuocere la pasta per il personale viene immobilizzato dal maître e preso a "torcionate" (frustate di strofinaccio, ndr) dallo stagista più anziano. E poi c’è lo chef, un po’ brutale dittatore, un po’ filosofo, che dice: "Mi vedi che bestemmio sempre. E probabilmente non sono una persona particolarmente credente. Però quello che succede qui dentro per me è la messa".

Cucinare, al di là del finto spettacolino mediatico messo in piedi pochi minuti per impressionare il pubblico a casa, nella realtà significa rimanere per ore tra raffiche di frullatori, grida disumane e fiammate alte un metro, tra fumo e vapore, in un clima cameratesco fatto di volgarità e vessazioni, di scherzi pesanti e sessismo, di molestie e ritmi disumani. E questo clima di tensione, visto che lo scopo non è la preparazione di "un" piatto, a favore della telecamera, ma di tanti coperti, aiuta la fluidità del servizio, la confidenza con gesti da coreografare in ambienti piccoli con poco tempo a disposizione.
L’alta cucina, specie in tempi di crisi, è fatta di budget da rispettare, di materie prime da reperire, di rapporti con clienti abituali e competenti e con zotici ignoranti che pretendono filetti ben cotti o capaci di ordinare piatti con continue modifiche, sino al paradosso di una quaglia senza quaglia.

Solo a partire da questo diventa "una questione di sensibilità, un gioco tra forma e sostanza, occupare lo spazio nel piatto con una sostanza buonissima che abbia una forma altrettanto bella". «Quello che Masterchef non insegna è la ripetizione, il rapporto con sottovuoti e sifoni, con le norme Hccp e la dispensa, tutto quello che sta alla base della filosofia di uno chef, che è prima di tutto la consapevolezza che ci si inserisce in una grandiosa tradizione.

Quando lo chef dice “Il gusto è memoria” non si limita a enunciare un concetto astratto. Parla di una vecchia zia sordomuta che solo lui andava a trovare perché da ragazzino era appassionato di batteria e lei non lo cacciava per il troppo rumore. La sera, terminate le esercitazioni, gli preparava delle cene buonissime in cambio della sua compagnia. E i suoi piatti sono una elegia di quelle erbe di campagna, del fresco della neve del monte Subasio, delle sinestesie olfattive durante le corse in bicicletta".

Quello che si impara nel primo anno di stage è soprattutto che il percorso per diventare master chef è molto lungo. E che la cosa più importante è non mollare. "Qualche giorno fa lo chef parlava della riapertura in grande stile dopo la chiusura di gennaio. E mi fa: 'Valentina, mi dispiace, ma non fai parte della squadra dell’anno prossimo'. Prima che mi dicesse che scherzava ho avuto un mancamento. Avevo un milione di cose da finire ma anche un disperato bisogno di piangere. Così, per unire l’utile al dilettevole mi sono messa a tagliare le cipolle. Perché l’importante, qualunque cosa succeda, è che se il tavolo 7 ha ordinato la zuppa la zuppa venga servita in tempo al tavolo 7".

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