Il viaggiatore e il turista. Ormai anche l’esotico è mordi e fuggi
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Il viaggiatore e il turista. Ormai anche l’esotico è mordi e fuggi

Un tempo il viaggio era un piacere, uno status, una ricerca. Oggi si punta al low cost senza curarsi della meta. Ma l’altrove a portata di mano non funziona

Nel Dizionario dei luoghi comuni, dopo la voce "orientalista" Gustave Flaubert ironicamente scrive: "Colui che ha viaggiato molto". Dai viaggiatori ai turisti il passo è stato breve, quasi inavvertibile, ma le antenne dell’autore di Salambò l’hanno colto quando era ancora in fieri. Il primo baule di viaggio Vuitton è del 1875, il primo tour delle agenzie Cook è di 10 anni prima, la Compagnie internationale des wagon-lits è del 1872, l’Orient express che collega Parigi con Costantinopoli del 1889. La stanza d’albergo sostituisce il caravanserraglio, il dragomanno è soppiantato dalla guida, il Baedeker prende il posto delle relazioni.

L’esotismo non abita più qui, è un prêt-à-porter… Vent’anni fa, il bel saggio di Eric J. Leed, La mente del viaggiatore, uscì nell’edizione italiana con il sottotitolo modificato: From Gilgamesh to Global Tourism recitava quello originale, Dall’Odissea al turismo globale quello nostrano, quasi che un’epica troppo esotica necessitasse di una variante più casalinga. Ma re di Uruk o signore di Itaca, il risultato, ovvero ciò che abbiamo sotto gli occhi, non cambia: il viaggio divenuto turistico è ormai come il misurare la cella del detenuto che, scriveva Leed, "cammina su e giù dove altri prigionieri altrettanto nobili e 'liberi' hanno già lasciato un solco. Quel che una volta ci permetteva di trovare la nostra libertà ora serve a rivelarci i nostri ceppi".

Va di moda il viaggio low cost, dove il prezzo ha preso il posto della meta. Non importa dove si va, quello che conta è che costi poco, l’abilità del viaggiatore sostituita dalla sua capacità mercantile. C’è stato un tempo in cui viaggiare era un piacere, nel senso etimologico del termine, dopo è divenuto uno status, quindi un dovere, poi un obbligo, infine un commercio. Per certi versi è un ritorno all’antico, solo che la merce è divenuta il viaggiatore e il guadagno consiste nel risparmio.

Eppure, continuiamo a viaggiare e non a caso il turismo è la prima industria al mondo, meglio, il postturismo, perché la standardizzazione, la moltiplicazione e, spesso, il generale disprezzo di chi organizza verso chi è cliente hanno contribuito a fare svanire gran parte di quel fascino che un tempo si trovava persino nel turismo. Ogni volta che viaggiando riflettiamo su noi stessi, ci sentiamo impotenti e un po’ ci disprezziamo. Vorremmo distinguerci dalle masse viaggianti e invece ci siamo dentro sino al collo. Vorremmo evitare i turisti e i posti dove si raccolgono e imprechiamo contro gli altri noi stessi che non ci permettono di distinguerci: non siamo più degli "estranei", siamo gente comune.

Eppure, continuiamo a viaggiare, retaggio di quelle forme di immortalità che lungo una serie infinita di generazioni hanno fatto sì che ci si illudesse di esorcizzare la morte attraversando lo spazio e preservando il ricordo delle proprie imprese scrivendo, raccontando, edificando. "La grande maladie, l’horreur du domicile" di cui parlerà Charles Baudelaire, non è stato altro che il tentativo di sfuggire allo stato civile che si è creato, la reazione individualistica quanto elitaria di chi non si riconosce in un’organizzazione sociale da cui si sente soffocare, perché la massa seleziona all’incontrario, il sogno tipicamente umano di avere più di una vita, più di un’occasione. È l’insoddisfazione come motore dell’azione, come esorcismo contro la propria finitudine.

Per secoli, il viaggio è stato il mezzo delle immortalità tradizionali dei maschi. La femminilizzazione del mondo la si vede anche nella proliferazione della donna viaggiatrice e, se si vuole, nel segmento turistico omosessuale, un brand appetito e appetibile dai tour operator.

Continuiamo a viaggiare, anche se tutti viaggiano e non c’è più niente da scoprire, anche se tutti scrivono e non c’è più niente di nuovo da dire. È un proliferare di collane editoriali specializzate, di guide di carta e online, di mappe digitali, di interconnessioni. Vogliamo l’altrove, ma a portata di mano, possibilmente in un iPad. Confondiamo l’andare con l’essere e dimentichiamo l’ammonimento di Marguerite Yourcenar: "Ogni viaggio, ogni avventura (nel senso vero del termine: ciò che arriva) si raddoppia di un’esplorazione interiore. Come la lettura, l’amore e il dolore ci offre splendidi confronti con noi stessi e fornisce di temi il nostro monologo interiore".

Finita l’epoca del viaggio come esplorazione-rivelazione, siamo ormai da tempo entrati in quella del viaggio come riflessione, per chi naturalmente abbia ancora voglia di riflettere. Non è un caso che quello letterario sia l’unico viaggio possibile rimasto ai moderni. Ci interroghiamo sui cambiamenti, li analizziamo, cerchiamo un occhio vergine, o semplicemente diverso, con il quale raccontare quello che tutti magari guardano, ma non vedono. C’è insomma uno spostamento dall’oggetto al soggetto: non è più la tale città a rivelarsi attraverso chi la racconta, ma è la psicologia di quest’ultimo a usare strade, piazze, monumenti, odori come strumento di un proprio approfondimento e di una maggiore comprensione delle cose.

La modernità come sfida: obbliga a un surplus di conoscenze da un lato, a una capacità di sintesi e di scrematura dall’altro, spinge chi scrive ad acuire i propri sensi e il proprio stile e sotto questo aspetto spinge verso una costruzione letteraria che ha la stessa dignità che si può trovare nella edificazione di un romanzo. Se non è così, si è turisti per caso, scrittori di viaggio per caso. Chiunque voglia dare ai propri viaggi, come ai propri reportage, una dignità che sollevi gli uni e gli altri dalla quotidianità, la noia, l’invecchiamento precoce, tutto questo lo sa benissimo. Spesso la realtà è sterile, le conversazioni avute insignificanti, l’impatto con l’ambiente deludente… Ci vuole pazienza, intelligenza, sensibilità, sacrificio per creare il proprio vero.

Nell’Itinerario da Parigi a Gerusalemme, il libro con cui René Chateaubriand, già nel 1811, rivoluzionò la narrativa di viaggio aprendola alla modernità, l’autore arriva sulle rovine di Sparta. Non c’è più niente, se non solitudine, abbandono, pietre sparse. Nulla ricorda la grandezza del luogo, nulla sembra in grado di far rivivere la memoria del passato. Disperato, Chateaubriand si guarda intorno e poi, salito su una roccia, lancia un grido: "Leonida!" come se quella invocazione fosse in grado di far risorgere l’eroe delle Termopili. Noi non sappiamo se in quella fredda spianata urlò veramente, o se l’idea gli venne in poltrona, al caldo, durante la stesura di quelle pagine. Ma quel grido disperato e commovente lascia il lettore stupefatto e vale il viaggio. Low cost o no.

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Stenio Solinas