Fenomenologia del rimorchio al semaforo
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Fenomenologia del rimorchio al semaforo

Ecco come l'italico maschio ottimizza i tempi e cerca di intortare l'improvvida preda

Fanciulle sole nella giungla metropolitana: urge un annuncio. Attenzione ai semafori. Non c'entra il “pericolo multe”: qui si tratta di “rischio acchiappo”. Potremmo chiamarla, “fenomenologia del rimorchio al semaforo”. Sì. Esiste. Ci siamo finite in mezzo, noi nolenti.

Siccome il maschio caucasico del XXI secolo c'ha poco tempo, diciamo che pure gli scarni secondi che dividono da un semaforo sono utili allo scopo. Dunque, se vi accade d'assistere ad un balletto sospetto a pochi metri dallo stop – avete presente quegli inspiegabili avanzamenti d'auto fino al limite del semaforo, o virtuosistiche torsioni di collo di centauri che la sorte v'ha messo accanto? – bene: ci siete finite dentro, alla fenomenologia in questione.

La prassi è semplice: il maschio metropolitano avanza con apparente noncuranza per accertarsi che la mercanzia, che evidentemente pare promettere da dietro, non sia taroccata davanti. È da capire come faccia, una volta superato il “lato b”, a discernere il volto della preda sotto casco e occhiali da sole. Ma pare pensiero troppo raffinato, evidentemente.

L'altro giorno mi s'è accostata un'Alfa scassata degli anni 80 con dentro cinque giovinastri concupiscenti. L'aggancio era la localizzazione di una via. Così imprevedibile che ho contato mentalmente i secondi cui sarebbe seguita la seconda, funesta, domanda: “Il tuo numero di telefono?”. Ho risposto con cura degna d'indagine scientifica: “Eccheè? Un rimorchio sulla fiducia? E se fossi calva e guercia? ”.

Gli impavidi seduttori, senza scomporsi di punto, hanno replicato: “Ci fidiamo”.
Interrogato l'universo maschile a me vicino, biecamente utilizzato come carne da sondaggi, mi ha illuminato con orizzonti inattesi: “Guarda che non volevano guardarti la faccia. Volevano capire se eri un trans”.

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Paola Bacchiddu