Caso Middleton. Per i giornali inglesi che difendono Kate la privacy è a 'sesso' unico
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Caso Middleton. Per i giornali inglesi che difendono Kate la privacy è a 'sesso' unico

Il settimanale "Closer" pubblica il topless di Kate Middleton e i tabloid si indignano. Ma è un gioco ipocrita. Come dimostrano cinque anni di copertine di Oltremanica.

Campagna provenzale, ultimi scampoli d’estate: convinta che alcuni ettari di parco la mettano al riparo dai paparazzi, la principessa lascia cadere il reggiseno. Poi si spalma di crema solare e si abbandona alla tintarella, non prima di essersi scambiata calde effusioni con il suo partner. Qualche giorno dopo le foto di quei momenti d’intimità finiscono sulla scrivania di un direttore che, senza preavvertire la casa reale, decide di pubblicarle. Risultato: tiratura esaurita, regina infuriata, cause milionarie, appelli alla privacy.

Se state pensando al settimanale francese Closer e al topless di Kate Middleton, siete fuori strada. L’episodio risale al 1992 e ha per protagonisti Sarah Ferguson (all’epoca in attesa di divorzio dal principe Andrea Windsor) e il suo accompagnatore del momento: l’uomo d’affari texano John Bryan, detto «Toesucker» (ovverosia succhiaalluci, da uno degli scatti incriminati). E a sbattere i due in prima pagina fu proprio un quotidiano britannico, il Daily Mirror. L’analogia con i fatti di questo rovente settembre è impressionante. E dimostra come, se davvero esiste un confine tra il diritto di cronaca e quello alla riservatezza dei reali, quel confine fosse già stato largamente superato 20 anni fa, proprio da chi oggi ne chiede con più forza (e con qualche ipocrisia) il ripristino: i tabloid britannici. «Pubblicare le foto di William e Kate è osceno e ingiustificabile» tuona Paul Desmond, editore del Daily Express. «È stata violata la vita privata di una giovane coppia» gli fa eco il Daily Star. «Trovate il topo di fogna che ha fatto quelle foto» si sfoga il Sun. Tutti e tre i quotidiani hanno rifiutato la pubblicazione degli scatti e appoggiato la causa intentata da William e Kate contro Closer.

Altri organi di stampa, invece, hanno reagito allo scandalo pubblicando commenti sintetizzabili nel canonico «da che pulpito viene la predica». Il Guardian, per esempio, ha bollato come «ipocrita» l’improvvisa campagna dei tabloid contro l’esposizione dei seni. Ricordando che tutti i giornali in questione «lo stesso giorno presentavano foto di ragazze in topless, che avevano l’unico torto di non essere un’erede al trono». Ma l’ipocrisia è ben più ampia. E più grave. Perché per procurarsi notizie e lettori i cosiddetti «popular paper» di sua maestà non sono mai andati troppo per il sottile, ostentando rapporti a geometria variabile con la privacy. Anche quando si è trattato di sbattere in prima pagina gossip, indiscrezioni e foto imbarazzanti che avevano per oggetto proprio la famiglia reale.

Saltato nel 1992 con l’affaire Ferguson, il tappo della «royal privacy» non è più stato in grado, negli anni successivi, di tornare ad arginare l’esuberanza dei tabloid. Ad accelerare gli eventi, naturalmente, ha contribuito la fine del matrimonio tra la principessa Diana Spencer e il principe Carlo, primo caso di un divorzio reale in mondovisione. Centinaia di prime pagine dedicate alla principessa triste, alla sua bulimia e alla sua anoressia, ai suoi guardaroba, ai suoi flirt, alle sue presunte gravidanze, la trasformarono nell’oggetto da inseguire per decine di fotografi, con le conseguenze che conosciamo.

Eppure, neanche dopo l’incidente mortale del Pont de l’Alma, il 31 agosto 1997, l’attenzione dei tabloid verso la famiglia più amata d’Inghilterra si è attenuata. Anzi. Vedere alla voce Harry, il secondogenito di Carlo e Diana le cui foto, sempre più spesso con l’incedere degli anni, sono state messe a confronto con quelle  del maggiore James Hewitt, altro amante di Diana: nel 2003, addirittura, un giornalista free lance (non si è mai saputo chi gli avesse commissionato l’articolo) tentò di rubare il suo tovagliolo da un albergo di Parigi al solo scopo di verificarne il dna. Alla faccia della privacy. E ancora: Harry mascherato da nazista; Harry sbronzo; Harry in Afghanistan nel 2008, spedito in una missione che sarebbe dovuta restare top secret per motivi di sicurezza.

Fino all’episodio più eclatante, lo scorso agosto. Il principe viene immortalato in dolce compagnia e totalmente nudo nel corso di una festa in una suite di Las Vegas, terminata con una partita di «strip biliardo» ad alto tasso alcolico. Lo staff della regina vieta ai quotidiani la pubblicazione delle foto, diffuse inizialmente dal sito internet statunitense Tmz, ma l’embargo regge un solo giorno e a violarlo è il solito Sun. Con una motivazione che decisamente stride con il moralismo di oggi: «I lettori» scrive il Sun del 24 agosto 2012 «hanno il diritto di sapere come si diverte un membro della famiglia reale quando è lontano dalla Gran Bretagna».

E William? Il suo profilo riservato lo ha tenuto a lungo al riparo dai tabloid, ma è proprio a lui che si deve l’innesco del più grande scandalo che ha scosso i media britannici, il cosiddetto Murdochgate. La denuncia scatta nel 2005, quando il News of the World, domenicale del magnate australiano, rivela un’imminente operazione al ginocchio del principe: informazione che era a conoscenza di pochissimi. La polizia scopre che alcuni reporter avevano illegalmente ascoltato, con l’aiuto di un investigatore privato, la casella vocale del cellulare di William.

Una violazione della royal privacy e soltanto la punta di un iceberg: nel 2011 una commissione parlamentare d’inchiesta ha confermato che per il News of the World la raccolta d’informazioni violando email, telefoni e perfino abitazioni private (a volte corrompendo agenti) era «una pratica adottata su scala industriale al fine di ottenere in modo illecito materiale esclusivo per i propri articoli». Nel mirino dei cacciatori di scoop erano finiti vip come gli attori Sienna Miller e Hugh Grant, la modella Elle Macpherson, la creatrice di Harry Potter, Joanne K. Rowling, e i calciatori Wayne Rooney e David Beckham, la moglie dell’ex premier Tony Blair, Cherie, e una mezza dozzina di dirigenti laburisti.

Ma il News of the World non si era limitato ai vip: il tabloid aveva scandagliato anche gli sms delle vittime di tre omicidi e dei loro familiari, ostacolando le indagini, così come quelli di soldati inglesi caduti in Iraq e delle vittime dell’attentato alla metropolitana di Londra. Le indagini portano alla chiusura del giornale nel luglio 2011, alle pubbliche scuse di Rupert Murdoch, alle dimissioni dei vertici di Scotland Yard e a un maxiprocesso con 124 parti lese che vede imputato quasi tutto lo staff di direzione del giornale degli ultimi 10 anni. Senza contare l’effetto domino: il 23 luglio 2011, poche settimane dopo lo scoppio del Murdochgate, la Bbc rivela un secondo caso di phone hacking che coinvolgerebbe Daily Mirror e Sunday Mirror, accusati di avere ascoltato illegalmente le caselle vocali dell’attrice Liz Hurley e di Heather Mills, l’ex moglie del cantante Paul McCartney.

Finita qui? Neanche per sogno, perché al di là dei principali filoni d’inchiesta nei tribunali di sua maestà si moltiplicano le cause legali per violazione della privacy intentate ai tabloid. Come quella tra il fuoriclasse del Manchester United, Ryan Giggs, e il Daily Star, che nel 2011 ha sbattuto in prima pagina una sua relazione con la cognata e il suo ingresso in una clinica per «drogati di sesso» (informazione sanitaria, non divulgabile in Gran Bretagna). O come quella del 2010 tra lo stesso Star e l’ex campione di pugilato Amir Khan, cui il quotidiano, poi costretto alla rettifica, aveva falsamente appioppato una relazione con una modella.

La controversia legale più celebre è però quella tra il News of the World e l’ex boss della Formula 1 Max Mosley per le immagini della sua orgia sadomaso con cinque prostitute. Nel febbraio 2008 scatti e filmati della serata, avvenuta peraltro all’interno di una residenza privata, finirono anche sul sito del giornale, che al partouze attribuì ingiustamente la diffamante etichetta di festa nazista. Quando i giudici ordinarono la rimozione delle immagini, era tardi: avevano già fatto il giro del mondo.

Un anno dopo la corte di Londra ha concesso a Mosley un risarcimento di 60 mila sterline che, pur rappresentando un record nelle cause di questo tipo intraprese nel Regno Unito, di certo non ha placato l’ex patron della Fia sui tabloid: «Mi hanno accusato di una depravazione inimmaginabile» ha detto Mosley qualche mese fa. «Io credo invece che i più depravati siano loro: se si preoccupano principalmente di fotografare la signorina X in topless, sembrano ragazzini in cerca di facili oscenità. Non certo giornalisti».

E nemmeno campioni della privacy.

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