Ramallah, Palestina: oltre agli hippy c'è vita
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Ramallah, Palestina: oltre agli hippy c'è vita

Oltre al turismo etnochic, si può vivere una confortante normalità

"Ti prego, cerca di non esplodere", è la frase più ripetuta a chiunque si avventuri in Palestina, in generale, e in particolare di questi tempi, in cui tutto il Medio Oriente è rappresentato dai media come un unico e bidimensionale crogiolo di orrori.

In viaggio in Palestina, per lavoro e per piacere, impossibilitato ad afferrare in poche settimane tutte le sfaccettature di uno scontro come quello tra arabi e israeliani che da anni è assurto a simbolo delle contraddizioni mediorientali, non posso che lasciarmi guidare dai cliché accumulati negli anni del liceo, quando tutti portavano una kefiah e nessuno una kippah.

Ed eccomi, forte della divina ignoranza che contraddistingue molti di noi europei sulle faccende mediorientali, durante il volo, a pensare a cosa troverò in Palestina. In testa, niente analisi politiche, date storiche di intifade, guerre lampo e occupazioni, ma le immagini più trite passate infinite volte davanti ai miei occhi al telegiornale, tra un servizio di moda e uno di costume: kalashnikov, missili, campi profughi, attacchi bomba. Polvere a profusione. Povertà e disperazione ovunque.

Poi sono arrivato a Ramallah, città dai tratti inaspettatamente occidentali, "capitale" de facto dell'autorità palestinese, cosmopolita e relativamente piena di stranieri, più attivisti che turisti.

E ho potuto farmi un'idea meno parziale delle cose, o almeno della loro apparenza.

Un'amica mi aveva consigliato un ostello da usare come base, è una volta che l'ho raggiunto, ho trovato tutti molto gentili e amichevoli, eppure, allo stesso tempo, fastidiosi.

Perché questo ostello, tappezzato di materiale propagandistico, brochure, mappe dell'occupazione, libri e dvd culturalmente impegnati e frequentato da giovani palestinesi e stranieri legati alla "causa palestinese",  racchiude proprio tutti i velenosi vizi di una comunità che, nel pretendersi aperta e libertaria, è in realtà ridicolmente settaria.

Ad esempio, il tè.

In tutti gli alberghi in cui sono stato nelle scorse settimane, in Giordania e in Israele, era gratis. Qui costa "un sorriso", che è un modo davvero orrendo e inelegante per affascinare il viandante facilone, che nella condivisione di cucine e bagni si sente accolto in una comunità di prodi, sentendosi più politicizzato anche grazie alle privazioni che è felice di subire, come la mancanza di riscaldamento e il razionamento dell'acqua calda, e confortato dalla messa in scena di frugalità dell'arredamento, con lampade ricavate da kefiah, lampadari da scolapasta, comodini da cassette per la frutta e vetri alle finestre sigillati dallo scotch per non disperdere il calore (cambiare l'aria non è così importante, in fondo l'igiene è una mania troppo borghese per chi non può fare a meno di fare il punkchic).

Il padrone, scopro, è svizzero, e immagino tragga un bel guadagno dal cattivo gusto di ospiti e ospitanti, tutti apparentemente convinti che la bruttezza non sia un peccato, che quelle scelte di arredamento, decisamente estetiche, siano il miglior biglietto da visita di un appartenenza etica, un'idea di mondo, una scelta di campo che riguarda popoli oppressi (monoraccontati in infiniti reportage di sofferenze e privazioni attraverso immagini di brutali sopraffazioni) e non il loro etnocentrismo al contrario.

Nella mappa della città, distribuita gratuitamente ai turisti, campeggia l'invito a non lasciarsi ingannare dalla tranquillità cittadina, dai negozi alla moda, dalle catene di fast food (Pizza Hut, KFC...), dalle auto lussuose o dai posti in cui si serve alcol liberamente: qui c'è gente che soffre. Tutto sembra volto a dire "Anche se la gente che soffre non si vede, c'è, ed è palestinese, cercatela, perché soffre, soffre per colpa di Israele, non fatevi ingannare".

Come se la non sofferenza fosse un peccato. Come se i prezzi decisamente normali (qualche cosa meno cara che a Roma, qualche cosa di più, per dire), le auto nuove, i giovani ben vestiti e gli adulti che fanno compere in negozi poco mediorientali, fossero una messa in scena israeliana con la complicità dell'autorità palestinese, e non una delle verissime e tante facce di una terra dove, oltre a verissime sofferenze e ingiustizie, scontri e violazioni dei diritti umani, ci sono anche persone normali, perfino agiate, che conducono una vita decisamente normale, perfino agiata.

Fuori dalla città: colonie ebraiche, problemi di visti per i residenti arabi, militari e muri, reticolati e checkpoint sono drammatiche realtà.

Ma qui, decisamente, no.

Eppure, anche la vita notturna di questa "Parigi palestinese", come viene chiamata Ramallah, viene presentata come una forma di protesta, di resistenza al nemico, non come normalissima normalità.

Per fortuna, basta lasciare l'ostello in cui questi giovani portano avanti cause vere attraverso modalità immaginarie, camminare pochi metri, per trovare un albergo normale, a prezzi significativamente più bassi, con riscaldamento e acqua calda, mobili dozzinali ed economici ma puliti, lenzuola prive di pulci, finestre che si aprono normalmente.

E no, alla reception, i palestinesi che ti offrono un caffè ti indicano il tè gratis a disposizione senza che per prenderlo tu debba scavalcare tonnellate di volantini o doverti prestare alle scemenze da hippy dei sorrisi come cartamoneta.

E dalla "capitale" palestinese tornerai a casa con una maggiore comprensione delle drammatiche contraddizioni di questa terra, che restano vere anche se non vengono esagerate nella propaganda, ma anche con la convinzione che ci sia vita, oltre l'ostentazione della morte, che ci siano persone normali, che lavorano e vivono e che siano quelle che producono qualcosa di diverso da una macchina acchiappaturisti voyeur, in cerca di cause umanitarie d'accatto per potersi guardare allo specchio e sentirsi più giusti.

E per raccontare del loro eroismo agli amici durante gli aperitivi dei centri sociali, che in nome della stessa bruttezza estetica fanno sfoggio del loro hippysmo nelle capitali europee, sentendosi minoranze oppresse a loro volta e non enclavi di finto libertarismo protestatario arroccate per distinguersigente, soprattutto esteticamente, dalla gente normale che fa vite normali, piene di problemi e difficoltà quotidiane, dalle nostre parti, esattamente come qui, a Ramallah, e che esattamente come qui, a Ramallah, di questi fricchettoni fannulloni, non sa che farsene.

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Marco Cubeddu

Nato a Genova nel 1987, vive a Roma, è caporedattore di Nuovi Argomenti e ha pubblicato i romanzi Con una bomba a mano sul cuore (Mondadori 2013) e Pornokiller (Mondadori 2015). Credits foto: Giulia Ferrando

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