La bandiera dell'Unione europea
EMMANUEL DUNAND/AFP/Getty Images
Lifestyle

Di cosa parliamo quando parliamo d'Europa?

Le ragazze Erasmus coinvolte nell'incidente in Spagna. Le vittime degli attentati in Belgio. In questi giorni ci viene ricordato che siamo europei. Ma di che Europa facciamo parte?

Il tragico incidente dell'autobus in cui hanno perso la vita tredici studentesse Erasmus in Spagna, come gli attentati di Bruxelles rivendicati dall'Isis, ci portano in queste ore a riflettere sul nostro sentirci europei.

Dalle definizioni di "meglio gioventù europea" a quelle di "scontro di civiltà", siamo spinti a una reazione identitaria, a provare una profonda empatia che trova nei media un megafono iperbolico sovraccarico di je suis.

Ma di cosa parliamo quando pariamo d'Europa?

La loro Europa

Quella dei "padri fondatori", dei Presidenti della Repubblica, dei governi degli Stati più importanti, quella dei maître à penser dell'europeismo, dei Commissari europei, delle banche, della Troika, è un'Europa in cui i nostri valori, i nostri modelli di sviluppo, i nostri popoli, la nostra storia, le nostre radici, sono sempre più nostri a parole e sempre più loro nei fatti, oggetto di un tentativo di mitizzazione atto a rimarcare le nostre specificità di continente virtuoso, o comunque più virtuoso degli altri, capace di imparare dai propri errori, di ripudiare le guerre, di mangiare più sano e certificato, di battersi contro l'inquinamento, di difendere i diritti civili e la libertà d'espressione, eccetera.

La nostra Europa

Quella dei comuni mortali, è un'dea astratta, che non ci riguarda, in cui non ci riconosciamo. Un'Europa che non ha lavoro, anagraficamente vecchissima, quindi priva di futuro, che standardizza le verdure e gli stili di vita, e tassa, tassa e tassa, accentra poteri, e non ha niente di democratico o affascinante, non propone nessun ideale che non smentisca nella pratica, spostando gli orizzonti delle guerre oltre i suoi confini e ritrovandosele in casa, lasciando chi cerca disperatamente di raggiungerla affogare nel Mediterraneo, o quasi completamente sole le terre in cui sbarca chi la sognava.

I problemi sono tanti, tante le ansie, le contraddizioni, i passi avanti e i passi indietro da gestire di un processo di unificazione europea necessariamente lungo e travagliato.

Ma il problema principale è il modo in cui raccontiamo noi stessi a noi stessi, il modo goffo e volgare con cui cerchiamo di sentirci "europei", la pretesa di avere un'identità collettiva da costruire e difendere.

Tutti gli incidenti sono uguali ma qualcuno è più uguale degli altri

Un incidente automobilistico è sempre una tragedia.

Cosa c'entra però la retorica sulla gioventù, sui viaggi, sui sogni e le speranze europei?

In che modo chi viaggia per inseguire i propri sogni sarebbe meglio di chi resta a casa per costruirli?

Se tanti giovani muoiono in una volta sola è una questione europea e se muiono uno alla volta no?

Oppure la differenza è che nella perversa logica giornalistica bisogna trovare il "caso" a tutti i costi, il pretesto, il titolo, qualcosa di tragico e/o commovente da trattare come evento eccezionale con la stessa logica con cui si spettacolarizzano le vite private delle persone in televisione nel cosiddetto emotainment?

In che modo questo modo dopato di raccontarci ci rende cittadini più consapevoli di esserlo?

Tutti gli attentati sono uguali ma qualcuno è più uguale degli altri

Un attentato terroristco è sempre una tragedia.

Ma se riguarda il Belgio è più una tragedia che se riguarda la Turchia, ma meno una tragedia che se riguarda la Francia?

E, davvero, la paura, la paranoia, l'esercito dentro le stazioni delle metropolitane servono a qualcosa di diverso da generare un clima di sospetto e xenofobia (oltre a banali tafferugli perché i militari annoiati si trasformano in micidiali controllori pronti a punire chi scavalca senza biglietto)?

E, davvero, allo stesso tempo, i vuoti appelli alla tolleranza, all'accoglienza, al non farsi prendere dall'odio, visto che non spiegano nulla e la gente ha paura (irrazionale, come paura, visto che si muore decisamente di più, in Europa e nel mondo, in incidenti stradali che in attentati terroristici, ma comunque paura) non sono solo una variante elettoralistica e strumentale degli slogan contro l'immigrazione?

Buonismo e populismo, sono affetti dalla stessa malattia: lo sloganismo.

E l'informazione, che non informa, non spiega, non razionalizza, ma alza i toni, emotivizza ogni storia, oltre che ingannare, si autoinganna, finendo a credere a se stessa, quindi non capendo e non facendo capire nulla.

Le vittime di incidenti e attentati non sono le fondamenta con cui costruire la nostra identità.

Il senso d'appartenenza a un continente, per tutti (studenti, immigrati, lavoratori, istituzioni...) si costruisce attraverso opportunità, sviluppo, integrazione (soprattutto economica).

Inquadrando le tragedie per quello che sono (mere casualità o conseguenze di assetti internazionali in profondo mutamento), potremmo fare un passo in avanti, magari piccolo per l'effetto mediatico, ma un grande passo per poterci raccontare come europei potendo e volendo sentirci veramente tali.

I più letti

avatar-icon

Marco Cubeddu

Nato a Genova nel 1987, vive a Roma, è caporedattore di Nuovi Argomenti e ha pubblicato i romanzi Con una bomba a mano sul cuore (Mondadori 2013) e Pornokiller (Mondadori 2015). Credits foto: Giulia Ferrando

Read More