Festival di Cannes 2016 Jodie Foster Julia Roberts
Andreas Rentz/Getty Images
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Cannes, red carpet delle mie brame

In cerca di flash e di interviste, divi e divette hanno rispettato il rito più importante del Festival: cercare la "luccicanza"

di Gaetano Cappelli 

(L'autore dell'articolo, scrittore, ha pubblicato diversi romanzi, tra cui i premiati Parenti lontani e La vedova, il santo e il segreto del pacchero estremo)

Eccomi anch'io sul red carpet più esclusivo del mondo, col mio smoking d'ordinanza, pronto a godermi, si fa per dire, una di quelle storie di tristezza infinita di Ken Loach. No, certo, non sono nemmeno lontanamente una star, ma devono aver chiuso i cancelli del pubblico e quindi sfilo, quasi da solo, appena prima dei protagonisti della serata. Allora, quelli dall'altra parte delle transenne iniziano a lanciare urla di gioia, scattano foto e si aggirano ansiosi di attingere a un minimo riflesso d'immortalità (essere famosi è infatti ciò che più ci avvicina all'immortalità) perché per loro non fa differenza che io non sia nessuno. Quello che veramente li appassiona è partecipare a un rito.

Del resto, qualcosa del genere è successo anche a me, nel pomeriggio. Ero sulla Croisette, verso il Martinez, l'hotel delle star (almeno della terza scelta delle star, come mi rivela Antonio Monda che è qui a caccia di film per la Festa del cinema di Roma). Già, perché i divi più divini arrivano a Cannes sui loro iper-yacht, come Steven Spielberg che ne ha uno lungo giusto un centinaio di metri,e lì sopra se ne rimangono.

La seconda categoria alloggia nel magnifico Hôtel du Cap-EdenRoc ad Antibes dove, da una ventina d'anni, si tiene il Cinema against Aids, il party più esclusivo della Costa azzurra. Mentre la terza e più "democratica" classe di star alberga appunto nel lussuosissimo Martinéz (come lo chiamano). Ma tutte e tre le categorie di numinosi stanno ben attente a non mostrarsi se non sui 50 metri del red carpet, che sarà pure il più prestigioso al mondo ma è anche il più corto, e questo per non incorrere in un'inutile dispersione di carisma e tutelare dunque il sacro mistero della divinità.

Beh, stavo dicendo, lì, di fronte al Martinéz ho avvertito come una risacca di urla, ma felici, e quando per curiosità mi sono fatto vicino, quelle onde di giubilo mi hanno inghiottito. In mezzo alla folla, sovrastato dalla selva dei telefonini inalberati, dalle ragazze non poi così di primo pelo a cavalcioni dei fidanzati, mi sono sentito a mia volta posseduto e in balia di una strana contagiosa allegria e prontoa urlare di gioia quando finalmente sono riuscito a vedere questa giovane donna, bionda e bella, ma a me ignota; essendo, in realtà, i divi "democratici" quelli ancora non proprio popolarissimi.

E non ero il solo, perché se molti urlavano esultanti il "C'est ici!, È qui, è qui!", c'erano pure molti che, ugualmente esultanti come il sottoscritto, gridavano "Qui est-ce? Ma questa chi è?". Ah, era Blake Lively, tra le protagoniste di Café society, il nuovo, meraviglioso film di Woody Allen, ambientato nella folle Hollywood degli anni Trenta, popolata di sognatori prontia tutto pur di aver accesso al mondo favoloso del cinema; un po' come i personaggi che scendono in questi giorni a cercar fortuna sulla Croisette nella speranza che un riflesso della fama, che qui esponenzialmente si addensa, in qualche modo illumini anche loro.

Così, il giovane attore che viene da Angoulême, la stessa sperduta provincia di Lucien de Rubempré, l'eroe delle Illusioni perdute, e mostra alla videocamera di chissà quale tv l'articolo, di chissà quale gazzetta, che lo definisce il "nouvel Alain Delon". E potrebbe pure diventarlo, dal momento che è incredibilmente bello anche se, al momento, gli manca ancora quel quid. O la cantante nera dell'Ohio, a parte i terribili dreadlock multicolor, priva invece di tutto, anche della voce mentre intona una sfiatatissima canzone davanti alla telecamera magari di un suo amico; altre poi, in automatico, se ne aggiungono giacché un'intervista non si nega a nessuno.

Perfino un pechinese ho visto intervistare, un cane pechinese, dico; e aveva una voce più onesta della nera treccinata. Ecco un gruppo di splendide donne dagli abiti degli stessi sgargianti colori delle parrucche a nuvola, e altre che incedono solitarie e maestose in un tripudio di flash mentre sulla strada sfilano decappottabili da sogno guidate da uomini o donne che hanno tutto nella vita tranne quello che qui ognuno cerca: la "luccicanza", ovvero quella luce particolare che solo la fama riesce a darti.

E quando quella arriva può illuminare chiunque. Ma davvero. Tornando a Ken Loach, l'ho visto scalare, acclamatissimo, la leggendaria Montée des Marches del Palais des Festivals et des Congrés, la scala contro cui termina il red carpete davanti alla quale Julia Roberts, privandosi delle scarpe, ha mostrato i fettoni che hanno mandato in estasi la folla. Mr Loach, certo, non fa nulla di tutto questo. È un uomo sobrio, semplice come I, Daniel Blake, il suo nuovo film, ovvero la storia di un carpentiere infartuato che non riesce ad avere la giusta pensione. Più che una storia diciamo pure che è "'na vera traggedia". Sono tutti meticolosamente poveri e disperati, ma perfino il cane dei vicini rimane sciancato. "Un pugno nello stomaco, pronto a colpire l'indifferenza" l'ha definito la critica. E insomma, fa una certa impressione vedere la folla di super-ricchi, o comunque molto ma molto abbienti, che, subito dopo esserselo preso, questo cazzotto nello stomaco, e prima di tornarsene sui loro mega yacht o nei ristoranti stellati della Costa, si alzano ad applaudire in visibilio il vecchio regista impegnato e i suoi attori che non sono poi tanto diversi dai disgraziati che interpretano.

Così, le gran dame dall'outifit ultrachic se ne stanno a bocca aperta ad acclamare Hayley Squires che, sul grande schermo per la prima volta, interpreta una cameriera disoccupata, e che ha appena sfilato sullo stesso tappeto rosso della diva Julia, vestita esattamente come una cameriera disoccupata si sarebbe vestita per l'occasione. Ma così è il cinema: sogno, desiderio e, soprattutto, illusione. E Cannes rimane il suo magico e più sfavillante tempio.


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