Bollate, il nostro mondo
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Bollate, il nostro mondo

Nella periferia milanese diventata il luogo più virale del web italiano degli ultimi tempi, dove bullismo e inciviltà sono soltanto una parte di un fenomeno ben più complesso - Sondaggio - Bullismo: come difendersi

Bollate, sotto la pioggia, è un agglomerato grigio in cui si annuvola l’aria inessenziale di ogni sobborgo.

Al suo ingresso, una scuola, diventata celebre quanto l’episodio di cui è teatro: una rissa tra ragazzine quattordicenni diventata un fenomeno virale sul web.

Il video del pestaggio, girato dal telefonino di uno dei tanti immobili spettatori/incitatori, mostra una realtà apparentemente inoppugnabile: una ragazza bionda aggredisce una ragazza bruna, che non reagisce e invoca pietà.

Attorno, decine di ragazzi guardano, filmano, bestemmiano e reclamano più sangue, come fossero i muri consunti di un’arena romana e allo stesso i patrizi che ruminano annoiati grappoli d’uva, mentre si consuma la mattanza.

Schiaffi, tirate di capelli, calci in testa.

Il video finisce, e non si hanno dubbi tra chi sia la vittima e chi la carnefice.

Ma poi viene condiviso. E nell’epoca in cui, più che le istanze generazionali sembrano le istanze tecnologiche ad imperare, si crea un’eterna rincorsa al rivivibile, che lo dilata nel tempo, diffondendolo in ogni spazio attraverso il web.

Il video ricomincia. E ricomincia. E ricomincia. Su bacheche, profili, telefonini.

Il fenomeno monta, i siti dei giornali ne scrivono, si formano pagine di sostegno alla vittima, che diventano pagine d’odio contro la carnefice. Si inneggia al linciaggio. Le versioni della storia si affastellano. La realtà inoppugnabile diventa tante realtà contraddittorie.

Le due quattordicenni hanno litigato per un fidanzato conteso. No, il fidanzato era conteso fra la bionda e un’altra, la bruna si è messa in mezzo. La madre della bionda era presente, ha fatto da autista alla sua bambina. No, era sola. No, era col suo gruppo, gente di Quarto Oggiaro. Tutte e due del liceo Primo Levi. No, una del liceo Levi, l’altra dell’Erasmo da Rotterdam, che sono accorpati. Ma no, la bionda è del La Grange, che non è un liceo, ma un istituto per parrucchiere.

La confusione, in questi fatti di cronaca, quando il polverone è ancora alto, regna sovrana.

Come il desiderio di emettere sentenze e dividere i buoni dai cattivi, stabilire verità sociologiche che inchiodino le nuove generazioni alla loro mostruosa e incomprensibile identità.

 

Arrivare a Bollate, quando il polverone si sta diradando, sotto una pioggia gelida che stempera gli animi accesi ed esasperati dal pellegrinaggio dei giornalisti che mi hanno preceduto è come un allunaggio.

Nessuna troupe televisiva all’orizzonte.

Solo un’atmosfera nebbiosa e 2.500 alieni che escono in massa dall’enorme edificio, dotato di laboratori all’avanguardia e conosciuto come una tra le migliori strutture in Lombardia, che ospita il liceo Levi e il liceo Erasmo.

I ragazzi sono un fiume in piena che si divide in accrocchi, tra le colonne, seduti a fumare una sigaretta come in piccoli circoli di autocoscienza. Sono diffidenti, all’inizio, ma in fondo hanno voglia di parlare. Hanno le loro versioni, tutte così simili, così normali, che non sembra affatto di avere a che fare coi mostri che a volte ci vengono dipinti.

“La violenza”, dicono tutti, “è sempre sbagliata. Però…”

Però?

“Però le risse ci sono costantemente, sono cose normali”, dice Gabriele (nome di fantasia, come tutti i seguenti) “c’erano sicuro anche ai tuoi tempi”, aggiunge Simone, come se stesse parlando di secoli fa. Hanno 15 anni, non c’erano quel giorno. E non si riconoscono nei ritratti che vengono fatti di loro, come fossero tutti guardoni insensibili. “Il video è la vera caxxata” riprende Gabriele, “chi l’ha fatto è un coxxxone”. Concordano tutti. “Poi, se si volevano picchiare, ci sta. Però la Giovi (la bionda ndr) ha esagerato. Doveva fermarsi quando ha visto che la Marro (la bruna, ndr) non reagiva”.

Dei molti che dicono la loro, pochi hanno assistito alla scena.

I professori, che escono alla spicciolata, sembrano concordi nel dire che “questo è un ambiente sereno, sono piccoli episodi, certamente gravi, ma che ci sono ovunque”. Uno ricorda di quand’era studente al Levi a sua volta “c’era stato un fatto analogo, ma allora non avevamo i telefonini”. Una professoressa di lingue si dichiara preoccupata per il probabile calo di iscritti “che vorrà dire un taglio di organico, quindi perdita di posti di lavoro, in un momento già abbastanza difficile”.

Quando torno dai ragazzi, ne sono rimasti pochi.

Mi viene incontro Sofia, compagna di classe della bruna, la vittima: “Io le voglio bene, ma insomma, quale vittima?”

Ci raggiungono altri suoi compagni di classe, tutti bene informati, stranamente imparziali e ragionevoli, tutti presenti quel giorno.

“Praticamente è andata così. L’Elisa, una nostra compagna, si è messa con l’ex fidanzato della Giovi. La Giovi l’ha minacciata, ma l’Elisa non rispondeva. La Marro, senza che nessuno le dicesse niente, si è messa in mezzo, e ha iniziato a minacciare la Giovi, dicendole che l’avrebbe pestata.

La Giovi era famosa per essere una che le dava forte, ma non è che la Marro fosse una santarellina, aveva già fatto parecchie risse ed era sicura di dargliele. Così si sono date appuntamento per il 4 febbraio”. “Non alle due, come hanno scritto, alle tre meno un quarto”, precisa un ragazzo in disparte.

“E niente, si sono radunati due gruppi, noi eravamo con la Marro, insieme  a un sacco di altri, e poi c’era la gente con la Giovi, e tutti sapevamo da almeno una settimana che ci sarebbe stata la rissa. Quel giorno non è che la Giovi stava aspettando la Marro, eravamo noi che andavamo da lei perché la Marro la voleva picchiare. Io avevo paura e me ne volevo andare a casa, ma lei mi ha detto 'figurati, ci penso io, a te non ti tocca nessuno', così sono rimasta. E niente, quando siamo arrivati lì, dopo pochi secondi, si sono prese. È lì che parte il video, quasi subito, non c’è stato quasi niente prima. Io ero in disparte, e quando ho sentito urlare la Marro ho gridato di fermarle, ma nessuno mi dava retta”.

“Erano tutti coi telefonini, mica uno solo”, precisa sempre il ragazzino sullo sfondo. “C’era pieno di ragazzi più grandi e più forti che potevano dividerle, ma nessuno ha fatto niente. La Giovi ha sbagliato perché doveva fermarsi, perché dopo il primo colpo la Marro non capiva più niente e non si difendeva, e lei invece ha continuato a colpirla senza pietà. Quindi noi stiamo con la Marro. Però erano lì per picchiarsi tutte e due, per una cosa in cui la Marro non c’entrava niente, ci si è voluta mettere in mezzo lei, e tutte le pagine su Facebook, i finti profili che sono nati dopo, sono assurdi, cioè, la Giovi ha sbagliato, è stata una stroxxa, però ci hanno perfino invitato a un evento su Facebook per andare tutti sotto casa sua a picchiarla, vuol dire che non hanno capito niente, che rispondono alla violenza con altra violenza”.

È un po’ straniante sentire questo linguaggio di frasi fatte mischiato alla confusione adolescenziale, a un linguaggio alieno che tocca giornalisticamente parafrasare, non solo sintatticamente, e un buonsenso che crea una verità multiforme, non dogmatica, permeata da verità sociologiche e sentenze, eppure così ingenua e in divenire.

“Il punto è che la scuola non centra niente, che il bullismo non c’entra niente”, taglia corto il ragazzino sullo sfondo, che viene più avanti e si presenta, “Michele, piacere, per quale televisione sei tu?”

Nessuna, non ho videocamere.

Allora resta davanti e dice che “insomma, è una faccenda brutta, ma normale, io avrei fatto lo stesso, chiunque avrebbe fatto lo stesso”.

Dopo averli salutati trovo un altro gruppo, in attesa del pullman. “Noi non infamiamo nessuno, non abbiamo niente da dire”, dice uno, gli altri annuiscono. Raggiungo un altro gruppetto. Dopo aver vinto la loro diffidenza, si rivelano molto più esibizionisti dei precedenti. Si offrono di vendermi informazioni in cambio di 20 euro, poi scendono a 15, poi 10. Gli dico che ho il sospetto che sarebbe un reato, pagare dei minorenni per ottenere informazioni. Dicono “Ma chissenefrega, siamo in Italia”, come se fossero dei vecchi pensionati al tavolino di un bar.

Mi fanno vedere dei video, che si passano sui telefonini. Altre inquadrature, più corte, meno nitide, della rissa di martedì 4 febbraio. Video di altre risse, video scaricati da internet. Mi dicono il nome di un sito in cui sono caricati i filmati di varie risse dal mondo

Fanno un ultimo tentativo, “20 euro per il numero di telefono della Marro”. Li saluto, ma mi inseguono per darmelo lo stesso: “però non dire che te l’abbiamo dato noi”.

La chiamerò tornato alla macchina, per ripararmi dalla pioggia. Ma non ha voglia di parlare. Si è ritirata da scuola, probabilmente, i suoi hanno denunciato tutti, la picchiatrice, i testimoni, chi ha fatto le riprese, chi incitava, chi bestemmiava.

Mentre torno verso Milano, vorrei pensare di aver capito qualcosa, che ci sia qualcosa da capire, di non essere parte integrante di questa patina autoassolutoria che rende l’anormale normale, ordinario.

Ma onestamente non lo so, perché io, alle medie, mi ricordo le risse, mi ricordo il bullismo, mi ricordo una normalità anormale anche senza gli smartphone. E non riesco a pensarmi così distante o innocente. E allo stesso tempo, come se i miei 26 anni fossero 46, o 66, o 106, penso “dove andremo a finire” penso all’apocalisse, penso che tutto sia molto peggiore di qualche anno fa, che stiamo raggiungendo un’ossessione voyeristica che un tempo era solo nella testa degli alienati.

Questa storia, che sembra così particolare per il ping pong mediatico forse ci parla di noi, di una complicata civilizzazione in cui l’inciviltà è parte integrante della civiltà.

Forse avevano ragione alcuni a dirmi che “io, se fossi un giornalista, mi farei i caxxi miei”. O forse avevano ragione altri e dire che “se non c’erano tutti quei deficienti a incitarle, non si sarebbero picchiate”. O forse altri ancora a dire che “di video come quello è pieno, cosa ci fate tutti qua, mica solo a Bollate”.

I forse si susseguono ai forse, le verità alle verità, le generazioni alle generazioni. Dallo spettacolo delle macerie precedenti nascono nuove forme di civiltà. Non ne è ancora venuta fuori una in cui la violenza e la sua spettacolarizzazione non vi prendessero parte. Ma questa è la prima in cui l’immediatezza compatta ogni spazio e ogni tempo, e rende Bollate anche il nostro mondo e il nostro mondo Bollate

Mi sento come nel celebre racconto breve La sentinella di Fredric Brown, che racconta di un soldato sperduto su un pianeta di alieni a cinquantamila anni luce da casa. Un nemico gli si avvicina e il soldato lo uccide. E mentre noi empatizziamo con lui, attraverso il suo sguardo scopriamo che il mostruoso nemico è un essere umano, e l’alieno è lui. Un ribaltamento sempre possibile. Un loop di interrogativi potenzialmente infinito. Da condividere. O non condividere. Ancora.

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Marco Cubeddu

Nato a Genova nel 1987, vive a Roma, è caporedattore di Nuovi Argomenti e ha pubblicato i romanzi Con una bomba a mano sul cuore (Mondadori 2013) e Pornokiller (Mondadori 2015). Credits foto: Giulia Ferrando

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