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Sequestro Moro: perché le prime ricerche fallirono

Tra riforma dei Servizi, trasferimento di uomini-chiave e mancato coordinamento passarono i primi 15 giorni. Tra gli errori anche quello di un supercomputer del Viminale

Il rapimento di Aldo Moroaveva colto i Servizi Segreti italiani mentre si trovavano in una terra di nessuno: una fase transitoria e di completa trasformazione.

La sensazione che la risposta delle Autorità all'azione brigatista fosse inefficace montò rapidamente in Italia già una decina di giorni dopo la strage di via Fani.

Ma ciò che lascia maggiormente perplessi rileggendo le cronache di 40 anni fa è che tutto quello che fu costruito per combattere il terrorismo in quasi un decennio di strategia della tensione era stato decisamente indebolito in quella cruciale primavera del 1978. Il motivo della transizione era dovuto alla riforma dei Servizi, che prevedeva un vero e proprio smantellamento degli organismi precedenti e la formazione dell'UCIGOS (Ufficio Centrale per le Investigazioni Generali e per le Operazioni Speciali).

La situazione dei Servizi Segreti

Poco prima del rapimento di Moro diversi funzionari chiave dell'ex Sisde erano stati trasferiti ad altri incarichi. Si trattava di dirigenti molto attivi nell'antiterrorismo sin dalla strage di Piazza Fontana.

Uno di loro, Guglielmo Carlucci (ex vicecapo del Sisde) si trovava in Questura a Milano la sera della morte di Pinelli. Si diceva sapesse ogni dettaglio sull'organico delle Br, tuttavia allo scioglimento del Servizio era stato assegnato alla Criminalpol. Il 10 gennaio 1978 era stato trucidato a Torino proprio dai brigatisti rossi il Maresciallo Rosario Berardi, uno dei massimi esperti dell'eversione terrorista, mentre il suo collaboratore più stretto Giorgio Criscuolo era stato inviato in un commissariato di provincia, proprio come il suo collega toscano Giuseppe Joele.

Nel 1974, anno del rapimento di Mario Sossi era stato istitutito proprio per l'emergenza terrorismo l'SdS (voluto dallo stesso Cossiga) con funzioni soprattutto operative, mentre il nuovo Ucigos avrebbe avuto funzione squisitamente informativa, quindi meno "sul campo".

Da questo sostanziale caos nella storia dei Servizi Segreti partirono le prime ricerche della prigione di Moro, coordinate da un Consiglio di Sicurezza permanente con sede al Viminale e presieduto dal Ministro Cossiga.

Cervelli umani. Cossiga e il Consiglio di Sicurezza

Si trattava nella pratica un centro di raccolta delle informazioni convogliate da tutti gli organi di Pubblica Sicurezza, che si riuniva due volte al giorno. Ne facevano parte anche politici come il democristiano Nicola Lettieri (Sottosegretario agli Interni) e il compagno di partito Francesco Mazzola, nuovo in tale ruolo in quanto nominato il giorno stesso della strage di via Fani. Oltre al capo del Sisde prossimo alla riforma, nel consiglio sedeva anche il Generale dei Carabinieri Carlo Alberto Dalla Chiesa, che aveva allora l'incarico di responsabile della sicurezza nelle carceri italiane. Il nuovo Ucigos era rappresentato da un uomo di fiducia di Cossiga, Antonio Fariello. Sedevano al tavolo infine i comandanti di Polizia, Carabinieri e Guardia di Finanza.

Fuori, il caos. Il numero del Viminale, l'ondata di perquisizioni a vuoto

Mentre si susseguivano i briefing del Consiglio del Viminale, Roma era nel panico. Si parlava continuamente di possibili attentati ai Ministeri, vi erano continui allarmi Nato nelle caserme, si temeva ancora il colpo di Stato. E quel che sembrava peggio era che, con il passare dei giorni, l'iniziale solidarietà degli italiani uniti nella difesa della democrazia stesse cedendo il passo alla rassegnazione e ancor peggio alla sfiducia nelle Forze dell'Ordine.

Cossiga si era ispirato ai tedeschi nell'organizzazione delle ricerche e nella strategia di intervento. Questo perché nel 1977 si era consumato un rapimento che in pratica era la fotocopia di via Fani. I terroristi rossi della RAF avevano sequestrato il capo della Confindustria della Germania Ovest Hanns-Martin Schleyer utilizzando la tecnica del "cancelletto" dopo aver neutralizzato la scorta dell'industriale tedesco, azione replicata esattamente dalle Br in via Fani.

Il Viminale prese contatti anche con uno psicologo che aveva partecipato alle operazioni di ricerca di Schleyer, Wolfgang Salewski, e istituì una linea telefonica per la raccolta di segnalazioni anonime (lo 06/4756989). Il numero fu tempestato di chiamate spesso di mitomani, medium, veggenti e parapsicologi. Con il passare del tempo la linea squillò sempre meno, così come si stese gradualmente il silenzio sulla localizzazione della prigione di Moro.

Ma il peggio agli occhi dei cittadini lo offrirono le sortite isteriche delle Forze dell'Ordine. La prima e forse la più grottesca fu l'arresto la sera stessa del 16 aprile 1978 di un funzionario di banca tesserato Dc, Franco Moreno, accusato di essere un fiancheggiatore delle Br. Passò kafkianamente quattro giorni recluso a Regina Coeli con l'accusa di "omicidio plurimo e sequestro di persona" prima di essere rilasciato immediatamente al primo interrogatorio.

Nei giorni successivi al rapimento del segretario Dc, Roma fu un fischiare continuo di sirene che uscivano giorno e notte dai commissariati coordinati dalla Questura di Roma San Vitale, che si erano concentrate nei primi giorni di ricerche nella zona di Monte Mario, nei pressi dell'abitazione della famiglia Moro. In totale le perquisizioni fino al 3 aprile 1978 saranno ben 233, i fermi 129 e 42 gli arresti, tutti senza esito. Molti degli obiettivi indicati dagli inquirenti erano palesemente fuori bersaglio: il nervosismo e la fretta avevano portato la Questura a fare irruzione persino nella libreria alternativa di Roma "L'Uscita" (letteralmente devastata) e nelle sedi delle radio libere. Non andò meglio ai Carabinieri in mancanza di coordinamento con la Polizia di Stato nonostante l'impiego di uomini che negli anni precedenti e sotto la guida di Dalla Chiesa avevano portato all'arresto di Curcio e Franceschini.

Cervelli artificiali: gli errori del supercomputer della Questura

Se le menti umane brancolavano nel buio, non andò diversamente per l'intelligenza artificiale, vale a dire quella del supercomputer installato negli uffici di PS di Castro Pretorio e fortemente voluto da Cossiga. Il primordiale cervellone elettronico avrebbe dovuto incrociare i dati di 10 milioni di schede personali raccolte  dai vari organi di Polizia. Fu un flop clamoroso, perché il computer indicò come responso finale 20 possibili autori del rapimento Moro. L'errore fu subito chiaro in quanto molti dei terroristi presunti si trovavano già in carcere ( e in molti casi per reati comuni), uno compariva due volte con due nomi e due foto diverse.

La tensione crescente per l'impasse nelle ricerche generò screzi tra il Viminale e le Forze dell'ordine da questo coordinate, con accuse reciproche di ritardi nell'organizzazione dei posti di blocco a cui si replicava con la mancata coordinazione strategica e con la carenza cronica di uomini e mezzi. I sindacati delle Forze dell'Ordine avevano denunciato all'indomani di via Fani il proprio malessere per la carenza di almeno 13.000 agenti. Quelli in servizio si sentivano allo sbaraglio, avevano la sensazione di rispondere ad ordini inefficaci e talvolta contradditori. Mancavano armi e munizioni e la sicurezza non era garantita, come aveva dimostrato la mancata dotazione alla scorta di Moro di auto blindate e giubbotti antiproiettile.

In questo momento difficile Francesco Cossiga si chiuse nel riserbo più assoluto, cosa che fece irritare non poco l'opinione pubblica a cui fece eco Sandro Pertini, che più volte aveva punzecchiato il Ministro degli Interni per l'inefficienza strutturale dei Servizi e delle Forze dell'Ordine.

I militari intervengono. Inefficienza di un Esercito di soldati di leva

L'ultima decisione presa dal Viminale nei primi 15 giorni di prigionia di Moro fu quella di coinvolgere l'Esercito. Non andò meglio, nonostante Cossiga avesse dovuto trattare per due giorni con i vertici della Difesa. I militari italiani non avevano un piano di intervento antiterrorismo aggiornato, essendosi fermati alle ultime disposizioni operative risalenti al golpe Borghese del 1970.

Erano statiai margini durante gli anni della strategia della tensione.  Il ritardo si palesò immediatamente anche perchè l'Esercito Italiano era ancora pressochè totalmente formato da militari in servizio di leva, che furono richiamati in numero di 1,200 per l'operazione dal nome altisonante di "Cintura di Ferro".

Uscirono dalle caserme romane i mezzi e gli uomini dei Granatieri di Sardegna, i Bersaglieri e gli Artificieri da Civitavecchia mentre l'unico corpo speciale era rappresentato da un nucleo di Incursori di Marina trasferiti da La Spezia. I soldati di leva furono portati nelle strade ad istituire posti di blocco con vecchi fucili Beretta mod.59 (il Fal) e vetusti Garand tra le lamentele degli ufficiali di carriera che potevano misurare con mano tutta l'inadeguatezza degli organici dell'Esercito.

Una situazione ben diversa da quella tedesca a cui si era ispirato il Ministero degli Interni, e lo si era capito dall'azione delle squadre speciali GSG-9, le teste di cuoio entrate in azione a Mogadiscio per la liberazione degli 86 ostaggi del volo Lufthansa dirottato dai terroristi come appendice del tragico rapimento Schleyer.

Il silenzio di Cossiga

Tra le maglie dei posti di blocco e dei rastrellamenti senza coordinamento, le Br furono in grado di lasciare impunite il comunicato n.2 nelle principali città italiane. Parole di sfida dei carcerieri di Aldo Moro che di lì a poco avrebbero fatto recapitare anche una lettera indirizzata a Cossiga. Parole siglate con la stella a cinque punte a cui si era contrapposto il cupo silenzio del Ministro, uomo normalmente incline alle esternazioni.

Archivio Panorama
Un dettaglio di una delle cover di Panorama uscite durante la prigionia di Moro

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Edoardo Frittoli