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Tecnologia

Sarahah: il problema della chat anonima siamo noi

L’applicazione che permette di inviare messaggi senza svelare il proprio nome (più o meno) ha scatenato un caos sul web. Forse eccessivo

Sarahah è l’app più discussa dell’estate. A differenza di tanti altri servizi di messaggistica, che includono l’invio di foto, video e la possibilità di effettuare anche videochiamate, il suo focus rimane sul testo.

Sarahah vs WhatsApp

La prima differenza con il più famoso WhatsApp è che non esiste un elenco dei contatti, non di tipo tradizionale. Gli iscritti non si ricercano cioè tramite il numero di telefono ma attraverso il nickname, impostato in fase di registrazione. Al fianco di questo si può inserire anche il proprio nome reale, utile per rendersi individuabili da amici, famigliari e soprattutto sconosciuti.

A chi si rivolge

Si, perché Sarahah è pensato principalmente per uno scambio di contenuti con persone alle quali è meglio nascondere la propria identità, per non rischiare nulla. Gli sviluppatori hanno infatti pensato ai dipendenti che vogliono fornire suggerimenti ai datori di lavoro troppo collerici oppure a chi è a conoscenza di un qualcosa che farebbe comodo alle forze dell’ordine (o ai media nel caso di governi autoritari), informatori preoccupati per la loro vita.

Come funziona

Per questo chi invia un messaggio lo fa in maniera anonima, senza svelare il proprio nome. Chi lo riceve non ha modo di capire da chi arriva: nessun mittente, nessun riferimento, nessun avatar, nessuna opportunità di risposta. Un’esigenza fondamentale per lo sviluppatore saudita Zain al-Abidin Tawfiq, la cui idea era quella di creare una sorta di WikiLeaks conversazionale, che si è poi trasformata in una piattaforma senza freni, considerata da molti come il calderone nel quale si riversano i peggiori sentimenti degli internauti.

Ma non è colpa sua

Ma la chat, che tradotta dall’arabo sarahuh vuol dire esplicitamente, non ha molto da rimproverarsi, non dal punto di vista etico almeno. Consentire a qualcuno di far sentire la propria voce in modalità nascosta (vedremo più avanti che non è esattamente così) può essere considerato come un caposaldo della libertà di espressione.

È il cosiddetto whistleblowing che ha permesso di scoprire i più grandi scandali politico-economico-sociali dell’epoca moderna (anche se le radici risalgono a molto prima, sin dai romani) e di arrivare a risultati importanti nella lotta alla criminalità organizzata, soprattutto in Italia.

Decidiamo noi cosa fare di una tecnologia

Ancora una volta è l’uomo che ha il potere di far prendere una certa via alla tecnologia, cambiandone persino la destinazione d’uso. Il mare di insulti che i temerai utenti della prima ora stanno sperimentando rappresenta la prova cardine: laddove WikiLeaks ha un team dedicato che filtra le comunicazioni, Sarahah crea un contatto diretto, impersonale, esplicito e per questo pericoloso.

Si possono convincere e limitare gli iscritti a non sfociare nell’offensivo e infruttuoso? No, altrimenti si innalza un perimetro anche per tutti gli altri. La strada migliore, la più difficile, è la formazione, la stessa che dovrebbe portare a non aprire un allegato di posta da un mittente sconosciuto, evitando così infezioni e propagazioni di virus.

Contribuire ad aumentare il dissapore con messaggi anonimi pieni di odio e frustrazione non fa bene né a chi li invia né a chi li riceve. Punto.

Il problema sicurezza c’è

Parlando di sicurezza qualche dubbio sul programma made in Arabia Saudita c’è. In che modo protegge l’anonimato delle chat? Nella sezione informativa si legge: “Non sveleremo l’identità degli iscritti, non senza il loro consenso. L’app non ruba i dati personali degli utenti ma altri siti web e app che si fingono Sarahah possono farlo”. Un testo che pare più una dichiarazione di resa piuttosto che uno sforzo per rendere più sicure le comunicazioni.

Una concreta perplessità è poi quella che riguarda le tecniche di raccolta e gestione delle informazioni. Che tipo di crittografia (WhatsApp usa la end-to-end) vi è alla base? Dove sono localizzati i server? Domande a cui non abbiamo risposta e sulle quali Telegram (un esempio su tutti) ha fondato il proprio successo.

Chi vieta alla polizia saudita o alle agenzie di sicurezza internazionali di accedere ai dati dei navigatori? E poi, che motivo c’è di chiedere, alla prima apertura, l’accesso a contatti, foto, sms e localizzazione? Un’applicazione davvero anonima dovrebbe fregarsene di tutto questo. E invece no.

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Antonino Caffo

Nato un anno prima dell’urlo di Tardelli al Mondiale, dopo una vita passata tra Benevento e Roma torno a Milano nel cui hinterland avevo emesso il primo vagito. Scrivo sul web e per il web da una quindicina di anni, prima per passione poi per lavoro. Giornalista, mi sono formato su temi legati al mondo della tecnologia, social network e hacking. Mi trovate sempre online, se non rispondo starò dormendo, se rispondo e sto dormendo non sono io. "A volte credo che la mia vita sia un continuo susseguirsi di Enigmi" (Guybrush Threepwood, temibile pirata).

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