Sul ponte sventola bandiera stanca
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Sul ponte sventola bandiera stanca

Non ho ancora deciso se i paralleli storici mi piacciono o no. So che sono utili, prima ancora che per descrivere un qualche evento, per definirlo: dato che in effetti è difficile, o forse impossibile, tratteggiare i confini di un qualcosa di nuovo senza ricorrere all'esperienza pregressa degli osservatori. Il che non toglie che ogni accostamento è una semplificazione, e che molto spesso questi accostamenti finiscono per cucire, addosso agli eventi "nuovi", delle etichette scorrette o comunque imprecise, che poi non si tolgono più; ma, se devo finire questa trita triade hegeliana, dirò che probabilmente ogni indagine degna di questo nome deve partire, nella sua ricerca della verità o dell'esattezza, dalla correzione dei miti e delle imprecisioni.

Tutto questo per dire che Serbia-Albania della scorsa settimana, la partita in cui un drone ha sorvolato lo stadio sventolando un vessillo con i contorni di una assurda Grande Albania e i volti di due eroi nazionali schipetari, non somiglia a nessuno di quegli altri fatti, anche loro balcanici, a cui è stata accostata.

Alcuni, i più banali per la verità, hanno infatti rievocato quella partita fra Dinamo Zagabria e Stella Rossa che segnò con drammatica, plastica evidenza, nel 1990, il livello di odio, di violenza, di impotenza da parte delle istituzioni centrali e "neutrali" che andava caratterizzando la Jugoslavia in frantumazione. Ovviamente tutti questi fattori non nacquero con quella partita, e anzi è corretto sostenere che sia le autorità che l'opinione pubblica ne fossero perfettamente a conoscenza: ma gli eventi del Maksimir - lo stadio di Zagabria - ebbero una tale gravità, una tale risonanza, una tale inevitabilità quasi epica, che non furono soltanto un'illustrazione grafica, per così dire, dei tempi, ma contribuirono essi stessi alla discesa della Jugoslavia verso l'abisso.

Altri, con maggiore sensibilità, hanno richiamato alla mente un altro evento del 1990, avvenuto però a migliaia di chilometri dalla Jugoslavia: ossia la finale dei campionati mondiali di basket, giocati in Argentina e vinti dalla Jugoslavia. In quell'occasione, appena dopo la sirena e prima ancora della solita invasione di campo, un tifoso scese sul parquet con una bandiera croata, avvicinandosi ai giocatori jugoslavi con l'evidente intenzione di farla sventolare a qualcuno di loro; fu però Vlade Divac il primo (e forse l'unico) a notare la maliziosa manovra, il che lo spinse a intercettare il tifoso, afferrare l'incongruo drappo e, dopo esserselo caricato sulle spalle e aver allontanato l'invasore, lasciarlo cadere in terra (per la verità senza alcun disgusto o ostentazione). Quell'incidente minore e invisibile - pochi secondi dopo tutti i cestisti jugoslavi erano a centrocampo a saltare sotto la bandiera jugoslava - fu però ripreso dai media croati e diede inizio a una campagna d'odio contro Divac, dipinto come una sorta di ultranazionalista serbo. Lo stesso episodio portò alla rottura della saldissima e commovente amicizia fra Divac e Dražen Petrović, la quale, per molti motivi e soprattutto per la morte prematura del sebenicese, non fu mai riallacciata. In questo senso, per come una minuzia si trasformò in una catastrofe, a causa delle circostanze, dell'odio diffuso, di una guerra in preparazione, quella vicenda fu davvero tragica; anche nel senso proprio e classico del termine.

Ma Serbia-Albania non è stato nulla di tutto questo. Non si è trattato di un fatto tragico o comunque emblematico che rispecchia la gravità di una situazione esterna, pre-esistente, come nei due fatti ricordati sopra; bensì della ricerca pretestuosa e oggettivamente squallida, da parte di chi sa che i Balcani tendono a ripetere i propri errori, di un incidente cui aggrapparsi.

Tutto, nello stadio di Belgrado, è sembrato forzato e triste: la provocazione del drone; la smania degli albanesi in campo di afferrare il vessillo che era stato preso da un serbo, nonostante quella bandiera non avesse nulla a che fare con lo stato e la nazione albanese, e fosse semmai una mutazione consciamente e direi programmaticamente mostruosa di tutto quello che c'è di sano e di nobile nel sentimento patriottico; e infine la reazione belluina e pavloviana degli spalti, con migliaia di serbi caduti a pié pari nella provocazione e capaci solo di moltiplicare per dieci la patetica vigliaccata di cui erano stati testimoni, aggiungendo ad essa una violenza che sembra perfino stanca e che non fa più paura a nessuno.

In conclusione, non si sono visti i veri Balcani, in Serbia-Albania, ma una sorta di metateatrino farsesco; come se i Balcani si fossero proposti di recitare se stessi, in un certo senso, scegliendo con cura, per la rappresentazione, ogni aspetto deteriore. Non a caso, il risultato è stato tremendo e ributtante, e un simile esperimento non dovrebbe essere mai più ripetuto. In primis per il bene di quei paesi e dei pochi illusi che ancora credono in quella parte d'Europa.

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Tommaso Giancarli

Nato nel 1980, originario di Arcevia, nelle Marche, ho studiato Scienze  Politiche e Storia dell'Europa a Roma. Mi sono occupato di Adriatico e  Balcani nell'età moderna. Storia e scrittura costituiscono le mie  passioni e le mie costanti: sono autore di "Storie al margine. Il XVII  secolo tra l'Adriatico e i Balcani" (Roma, 2009). Attualmente sono di  passaggio in Romagna.

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