Napoli, contraddizione eterna
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Napoli, contraddizione eterna

Maurizio De Giovanni, scrittore partenopeo, ci racconta il capoluogo campano, oltre gli stereotipi e in tutta la sua bellezza

di Maurizio De Giovanni

Se dal lungomare, lasciandovi alle spalle le facciate liberty dei grandi alberghi, vi incamminate sulla stretta lingua di terra che porta al Borgo Marinari, non lasciatevi distrarre dall’odore della cucina dei ristoranti che costeggiano la lunga e antica banchina e sollevate lo sguardo. Vi accorgerete di una cosa un po’ bizzarra: sui bastioni del castello che si allunga nel golfo, immenso e forte e sedimentario come il luogo di cui è uno dei simboli, ci sono cinque cannoni rivolti verso la città. Strano, no?

Ci si potrebbe aspettare che la minaccia fosse attesa dal mare, un’invasione medievale di pirati o di popoli stranieri interessati ad acquisire un territorio fertile, una posizione strategica al centro del Mediterraneo, un porto commerciale tra i meglio situati del mondo allora conosciuto; e invece Normanni, Svevi, Angioini, Aragonesi e tutti quelli che si avvicendavano al comando di questa terra tormentata pensavano che il pericolo, quello vero, potesse arrivare proprio dalla città che dominavano. Questa paradossale situazione è dolorosamente emblematica di quello che è il maggior problema che grava su Napoli: il suo inestinguibile, determinato autolesionismo.

Un senso dell’individualità che fa vedere gli altri come potenziali avversari nella corsa a qualsiasi cosa, da un parcheggio a un posto a sedere in metropolitana, dall’ordine della fila all’ufficio postale all’ottenimento di una raccomandazione. Molti napoletani, purtroppo, sanno essere cittadini quando reclamano con forza i propri diritti, ma non riescono a sentirsi concittadini quando si tratta di limitare le proprie libertà per consentire l’esercizio di quelle altrui. C’è forse un peccato originale di carattere urbanistico: schiacciata tra due colline, una montagna e il mare, la città si è sviluppata in maniera stratificata. La necessità di abitare non lontano dall’azzurra distesa che incanta e sopprime ogni voglia di muoversi, per lasciarsi contemplare da uomini sopraffatti da quella immensa bellezza, ha sviluppato strade strette e tortuose che a volte non conoscono luce, soffocate da traffico e gente e rumore e passioni.

Difficile stabilire regole di convivenza civile, in quelle condizioni: meglio sviluppare le singole genialità, efflorescenze spontanee che grazie a Dio non sono mai mancate, ma che mai hanno costituito un sistema che fosse di beneficio per tutti. Dovessimo individuare il più grave tra i problemi che hanno investito la comunicazione della città, al suo esterno e al suo interno, indicheremmo gli stereotipi. Napoli è forse la città più stereotipata del mondo intero, e sempre in maniera contraddittoria.

Dalla partenza dei bastimenti per le terre assai lontane, con le valigie di cartone, alla pizza e al mandolino; dalla città milionaria e della borsa nera col finto morto sul materasso pieno di merce alla prostituzione infantile offerta ai soldati americani; dalle mani sulla città con l’edificazione selvaggia delle meravigliose colline martoriate al cavalluccio rosso e al furto dell’autoradio del professor Bellavista; dai pacchi, doppi pacchi e contropaccotti fino alle mille Gomorre, si sono alternati decine di racconti della città, che sono diventati singole chiavi di comprensione universale. Come se ognuno di essi fosse l’ottica giusta, l’unica, per leggere una realtà che invece ha nell’enorme complessità la ragione stessa della propria sostanziale incomprensibilità. Attenzione: nessun negazionismo.

Si tratta di aspetti reali, veri e spesso dolorosamente riconoscibili, attuali e presenti nella vita di ogni giorno; ma nessuno di essi può avere la pretesa di essere esaustivo. La verità è che Napoli non è una sola, ma è drammaticamente molteplice. E che non ha confini esterni, ma interni. È una città con la periferia in centro, che espone la mercanzia di un’alternanza scomposta di realtà sociali, economiche e culturali che sono diametrali ma in continuo contatto.

Va immaginata come un immenso ingranaggio fuori fase, le cui ruote dentate girano in modo asincrono creando cascate di scintille e un costante cacofonico fragore. Le suburre imperscrutabili di fabbriche del falso, di spaccio e di scippo, allungano le dita nere in mezzo alle vie dello shopping e del franchising, alle piazze finanziarie e ai palazzi dei salotti aristocratici senza finestre sulla città, impegnati nell’eterno burraco senza fine di una solitudine ombelicale. Napoli ignora Napoli, insomma. Si disinteressa della città, preferendo impegnarsi in una specie di lotta orizzontale votata alla sopravvivenza o al miglioramento privatissimo delle condizioni individuali, arrotolando se stessa in una tragica miopia che non consente l’individuazione delle vere risorse, che pure esistono e che potrebbero tranquillamente essere capaci di riportare a galla pesi sociali ben maggiori di questo presente.

Perché la città perennemente moribonda è in realtà immortale. Stretta nell’abbracviaggiacio della sua stessa indifferenza, è portatrice di bellezze non cancellabili che emergono continuamente nonostante l’apprezzabile tentativo di seppellirle sotto tonnellate di negatività. Queste bellezze, vedete, sono una croce vera da portare: perché richiamano continuamente a quello che si potrebbe essere e che non si è, e all’incapacità di allungare la mano e prendere alla luce del sole, tanto di quel sole, i frutti dei mille alberi di cultura e storia e arte che crescono qui senza bisogno di essere nutriti.

È questa la peggiore dannazione: la consapevolezza nascosta di essere provvisori e incapaci custodi di qualcosa di enorme e di impossibile da dimenticare. Che si riflette in una canzone ascoltata di sfuggita, nella facciata di una chiesa chiusa da decenni e incrostata di smog ma il cui marmo dalle linee delicate attrae ancora gli occhi di chi passa per la centesima volta, nel profumo impossibile di un piatto celestiale che viene fuori da un basso dei Quartieri spagnoli; più ancora nella cartolina vivente che si offre a chi scende Posillipo in primavera o nell’inquietante meraviglia del Cristo velato. La dannazione della bellezza che proviamo a dimenticare ogni singolo giorno. Senza riuscirci mai.

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