Gli USA e la “questione mediorientale”
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Gli USA e la “questione mediorientale”

La Casa Bianca dichiara il proprio sostegno al governo di Baghdad per contrastare l’avanzata dello Stato Islamico dell’Iraq e del Levante in Iraq. Ormai però per Obama la partita in Medio Oriente è persa - Foto, la fuga da Mosul

per Lookout News

Osservando ciò che è accaduto negli ultimi giorni in Iraq, rivolgendosi agli Stati Uniti molti potrebbero obiettare che ci sono “modi e modi” per abbandonare un Paese a se stesso. Critica doverosa, considerato che ieri con la presa di Mosul - la seconda città più grande dell’Iraq con quasi tre milioni di abitanti - da parte del gruppo jihadista Stato Islamico dell’Iraq e del Levante (ISIS), gli Stati Uniti si sono visti sfilare un altro pezzo di Medio Oriente dal terrorismo di matrice islamica dopo i fallimenti registrati in Afghanistan e Siria.

La conquista di Mosul e dell’intera provincia settentrionale di Ninive, di cui la città è capoluogo, è arrivata dopo un’ondata di attacchi alle forze governative protrattasi per quattro giorni. Le bandiere nere di ISIS sono state così issate sull’edificio del governatore, nelle sedi di due televisioni satellitari e all’aeroporto, anche se il colpo ad effetto senza dubbio è stato l’assalto alle prigioni di Badush, Tasfirat e al centro antiterrorismo di piazza Tayran, da cui sono stati fatti evadere circa 2.500 detenuti.

Forze fresche che andranno ad ingrossare le fila di ISIS, ormai padrone incontrastato dell’area nord-occidentale del Paese, dove da tempo aveva già in pugno gran parte della provincia di Anbar e le città di Ramadi e Falluja. E dopo Ninive, da cui nelle ultime ore sono state costrette a fuggire oltre 500mila persone e il controllo è fondamentale poiché rappresenta uno degli snodi principali delle esportazioni petrolifere irachene, presto potrebbe toccare alle province di Salahuddin, Kirkuk e Baiji.

Da Baghdad la reazione del premier Nouri Al Maliki, rieletto alla guida del Paese alle elezioni del 30 aprile scorso per un terzo mandato consecutivo, sembra destinata a consumarsi ancora una volta in un nulla di fatto. Il primo ministro ha dichiarato lo stato d’emergenza nell’intera area e ottenuto dal parlamento poteri straordinari per affrontare la crisi. Al Maliki ha inoltre invitato il popolo iracheno a resistere con le armi all’avanzata dei terroristi, ordinando la distribuire di fucili ai volontari. In questo tentativo disperato di salvare il Paese dal caos il premier appare però sempre più isolato, e all’interno del suo stesso entourage qualcuno ha iniziato a parlare della necessità di formare un governo di unità nazionale per provare a trovare un accordo con l’agguerrita minoranza sunnita. Quella del compromesso potrebbe essere una delle soluzioni possibili, forse l’unica, per garantire la sopravvivenza al potere degli sciiti, anche se calcoli politici così precari potrebbero non essere sufficienti per frenare le violenze settarie (solo a maggio i morti sono stati più di 800) e, soprattutto, resistere alle offensive islamiste. 

La situazione rischia di avere ripercussioni anche nella regione autonoma del Kurdistan iracheno, dove sono stati allestiti dei campi temporanei per accogliere gli sfollati provenienti da Mosul e dalle altre città dove sono in corso i combattimenti. In queste ore il governo ha chiesto e ottenuto l’appoggio militare dei battaglioni di Peshmerga, le forze armate curde, ma non è chiaro se e quanto il Kurdistan deciderà di mettere a repentaglio la propria incolumità per difendere la sovranità di Baghdad.  

- Il profilo di ISIS

Con migliaia di combattenti arabi ai suoi ordini, lo Stato Islamico dell’Iraq e del Levante negli ultimi mesi ha aumentato la propria influenza tanto in Iraq quanto in Siria.

Nonostante sia entrato in rotta di collisione con la leadership di Al Qaeda, che ne ha condannato la violenza dei metodi, il gruppo ha allargato il proprio raggio d’azione soprattutto nei territori di confine tra l’Iraq e la Siria con l’obiettivo di fondare un nuovo califfato islamico. Le sue radici risalgono al gruppo Tawhid e Jihad, gruppo sunnita che si schierò contro il governo provvisorio iracheno e gli Stati Uniti dopo la caduta di Saddam Hussein nel 2003. I

l leader attuale è Abu Bakr al-Baghdadi. Fuggito di prigione dopo cinque anni di detenzione, nel 2012 Baghdadi ha focalizzato l’obiettivo di ISIS sulla Siria. Qui a una prima alleanza con il fronte qaedista di Al Nusra ha fatto seguito il rinnegamento ufficiale da parte del leader di Al Qaeda, Ayman Al Zawahiri.

ISIS è però uscito rafforzato da questa scissione, in questi mesi ha assunto il controllo di diverse aree del nord e dell’est della Siria, mettendo le mani anche su importanti giacimenti petroliferi e sulla città di Deir Az Zor, roccaforte di Al Nusra.

A gennaio di quest’anno il nuovo cambio di strategia, con l’avanzata sinora inarrestabile nella parte nordoccidentale del Paese.

Oggi ISIS ha una forte presenza in tre province irachene al confine con la Siria, da dove controlla il passaggio di armi e il transito di combattenti jihadisti. Non è chiaro quali siano realmente gli appoggi regionali che ha alle spalle, ma i suoi ultimi attacchi a Mosul, l’organizzazione e le armi a disposizione dei suoi miliziani dimostrano tutta la sua forza e il fatto che potenzialmente potrebbe essere in grado di prendere il sopravvento nei territori al confine tra Iraq e Siria.  

I passi falsi degli Stati Uniti

In tale contesto, appaiono quasi un dovere di cronaca le prese di posizione della comunità internazionale, dell’ONU e della Casa Bianca. “Gli Stati Uniti - si legge in una nota rilasciata ieri dal Dipartimento di Stato americano - forniranno tutta l’assistenza necessaria al governo iracheno. ISIS non è solo una minaccia per la stabilità dell’Iraq, ma una minaccia per l’intera regione”.

Resta da verificare come e quando a questa “profonda preoccupazione”, e alla promessa che verranno immediatamente predisposte azioni per il monitoraggio della situazione in Iraq, seguiranno azioni concrete. Pare che gli Stati Uniti avessero già in programma di fornire al governo iracheno nuovi carichi di armi sofisticate, compresi missili Hellfire e droni, come testimonierebbe anche il fatto che la scorsa settimana Baghdad ha ricevuto il primo dei 36 caccia F-16 ordinati all’americana Lockheed Martin. 

Tuttavia qualcosa non torna. Dopo l’attacco di Mosul diversi funzionari della polizia e dell’esercito iracheni hanno confermato che i miliziani di ISIS hanno agito utilizzando lancia missili anti-aerei e granate con propulsione a razzo, segno forse che le spedizioni di armi inviate ai gruppi ribelli siriani anche recentemente dagli USA sono finite nelle mani sbagliate.

Un’accusa in tal senso è arrivata dal generale Abdelilah Al-Bashir, da febbraio capo di stato maggiore del Consiglio supremo militare del Free Syrian Army. Intervistato da Reuters, questi ha affermato che negli ultimi mesi Washington ha evitato di confrontarsi con il Consiglio da lui presieduto preferendo fornire autonomamente le armi a diversi gruppi ribelli. “Gli americani stanno continuando a distribuire armi sul fronte settentrionale e in quello meridionale della Siria - ha spiegato -. Fornire un sostegno a singoli battaglioni potrebbe rivelarsi fallimentare. Molti dei comandanti di questi gruppi sono signori della guerra che difficilmente potranno essere controllati in futuro. Ciò rischia di trascinare la Siria in scenari simili a quelli che si sono venuti a creare in Afghanistan e Somalia”

Dunque a undici anni dall’intervento anglo-americano per abbattere il regime di Saddam Hussein, e a due anni e mezzo dal ritiro definitivo dei soldati americani, lo scenario prodotto dagli Stati Uniti in Iraq assume contorni sempre più desolanti: il governo Al Maliki non ha intenzione di trovare un equilibrio con la minoranza sunnita, l’economia sopravvive solo grazie ai proventi dei giacimenti petroliferi ancora non in mano ai ribelli e l’esercito è ridotto a brandelli, decimato dalle perdite e dalle diserzioni.

Le potenze regionali che si confrontano alle spalle dello scontro tra i ribelli e il governo di Baghdad sono oggi il Qatar e l’Arabia Saudita da una parte e l’Iran dall’altra. Di fronte a tutto ciò Obama probabilmente manterrà la linea seguita dall’inizio del suo secondo mandato: ormai il Medio Oriente è perso, meglio provare a rifarsi con il confronto energetico in Europa e con la sfida nel Pacifico, anche se avere la meglio su questi fronti per gli USA si sta rivelando altrettanto complicato. 

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Rocco Bellantone