Perché l'università perde pezzi (e non solo iscritti)
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Perché l'università perde pezzi (e non solo iscritti)

Il vero problema è la scarsità di risorse, i criteri con cui vengono distribuite. E l'impossibilità di fare programmazione

«I dati sono quelli che sono. E li conosciamo bene. Ma la verità è che c’è una profonda disaffezione nei confronti del sistema universitario». Il presidente della CRUI, la conferenza dei rettori italiani, decide di intervenire nella polemica nata dopo l’allarme del Consiglio Universitario Nazionale che ha segnalato la “perdita” di 58mila studenti in 10 anni. Marco Mancini, rettore dell’Università di Viterbo, rappresenta la voce dei “governatori” degli atenei, quotidianamente impegnati con i malanni di un ambiente nevralgico per la crescita e il futuro del Paese.

Il calo di immatricolazioni c’è stato. Certamente, come ha tenuto a sottolineare il ministro Francesco Profumo, è stato “gonfiato” dalla scelta del 2003 come anno di riferimento, quando entrò in vigore il nuovo ordinamento con le lauree brevi e ci fu la corsa alle iscrizioni e ai corsi “scontati” per i dipendenti pubblici. Ed è vero inoltre che, se si guarda solo ai nuovi iscritti, per strada se ne sono persi “solo” 4.200. Una falso allarme? Una buona notizia? Né l’uno, né l’altro, spiega il professor Mancini.

«Anche se la corte dei diciannovenni fosse stabile, e non lo è, non ci sarebbe nulla di cui rallegrarsi. Parliamoci chiaro: in un Paese moderno che vuole essere internazionale io mi aspetto che il numero degli immatricolati cresca ogni anno. E così non è».

Ma c’è il calo demografico, ha ricordato qualcuno…Ci sono diverse interpretazione ma la verità è che c’è una profonda disaffezione nei confronti del sistema universitario.

Per quali motivi?
Il primo la campagna di denigrazione di cui è oggetto l’università, come ha giustamente scritto di recente il rettore di Padova.

Addirittura una campagna di denigrazione?
Sì, l’università viene vista e descritta come la sentina di tutti i mali, viene dato un eccessivo rilievo ai suoi problemi, che ci sono, senza mai ricordare però quel che c’è di buono. Noi siamo valutati ogni anno e sulla base di queste valutazioni ci vengono assegnate le risorse. Quale altra amministrazione pubblica lavora così? Per noi è un motivo di orgoglio.

E gli altri motivi di disaffezione, dopo le critiche?
La drastica riduzione dei corsi: dopo la campagna contro la proliferazione, siamo passati da 5.000 a circa 3.000 e avremo a un ulteriore ridimensionamento dopo l’ultimo decreto, quello del bollino blu, per arrivare a 2500. Metta questo insieme al calo delle risorse, che non è inferiore al 14% rispetto al 2009, e capirà che l’offerta non ha avuto modo di adeguarsi alle nuove sfide.

C’è però una reale difficoltà delle famiglie a pagare gli studi…
Certo, non c’è dubbio. Ma attenzione: il problema è che nel nostro Paese il diritto allo studio resta poco praticato e altrettanto poco finanziato.

Non sentite una certa sfiducia nell’utilità dell’università a trovare lavoro?
La questione della connessione con il mercato del lavoro è reale. La rete delle imprese, dell’amministrazione  pubblica non parliamo più, ha difficoltà a distinguere tra laureati e no. Fior di statistiche dimostrano che dal punto di vista salariale la forbice tra assunto diplomato e laureato si è andata riducendo. E questo ovviamente non incoraggia l’investimento nella formazione universitaria.

Ma l’università deve servire a trovar lavoro o ad altro?
Guardi, io sono un laureato in lettere e ho un’idea dell’università a strati: a un primo livello deve servire alla formazione della coscienza critica e civile dei cittadini, poi dovrebbe fornire le competenze richieste dal settore produttivo per cui uno si sente portato.

E invece che cosa succede?
L’università per lo più lo fa ma è alle prese con problemi strutturali che sono la causa del calo degli iscritti, non l’effetto.

Immagino si riferisca alle risorse…
Certo, nel 2013 perderemo qualcosa come 300 milioni di euro. E con il blocco del turn over, anche chi avrà disponibilità non potrà spendere

Non è forse una strategia necessaria in una situazione di risorse scarse e dopo anni di gestioni diciamo poco efficienti?
La questione è come vengono distribuite le risorse, finche ce ne saranno: andrebbe fatto con più intelligenza. Adesso il criterio è il numero degli iscritti, in modo indifferenziato. E da qui le ragioni di allarme di fronte al calo. Ma questa scelta andrebbe qualificata. Il dato quantitativo prevale su tutto, mentre prima si premiava la regolarità con cui gli studenti si laureavano, che in Italia è tra le più basse d’Europa.

Quindi andrebbe premiare la produttività e non i volumi?
Adesso si guarda all’input e invece conta l’output. Eppoi visto che ci viene rimproverato di non essere gestiti come aziende, io chiedo: come farebbe un’impresa che non è finanziata su base pluriennale, che sa su quante risorse può contare solo alla fine dell’esercizio, a fare una programmazione? Ecco questa è oggi l’università italiana. Una grande azienda culturale costretta a vivere alla giornata.

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Giovanni Iozzia

Ho lavorato in quotidiani, settimanali e mensili prevalentemente di area economica. Sono stato direttore di Capital (RcsEditore) dal 2002 al 2005, vicedirettore di Chi dal 2005 al 2009 e condirettore di PanoramaEcomomy, il settimanale economico del gruppo Mondadori, dal 2009 al maggio 2012. Attualmente scrivo su Panorama, panorama.it, Libero e Corriere delle Comunicazioni. E rifletto sulle magnifiche sorti progressive del giornalismo e dell’editoria diffusa.  

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