Tiananmen, venticinque anni dopo, non è cambiato (quasi) nulla
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Tiananmen, venticinque anni dopo, non è cambiato (quasi) nulla

Il governo non ha nessuna intenzione di allentare la presa ma, per fortuna, lo stesso vale per gli attivisti - Foto

In pochissimi giorni la Cina ha organizzato prima un processo di massa nel corso del quale ha condannato 53 imputati a scontare un totale di centinaia di anni di prigione e ad altri tre ha comminato la pena di morte, poi ha condannato, questa volta a Pechino, altri 8 (presunti) terroristi per l'incidente mortale provocato il 28 ottobre scorso da un Suv saltato in aria in Piazza Tiananmen, uccidendo tre attentatori e due turisti. Il primo è stato un processo in grande stile, organizzato in uno stadio di Yining, nello Xinjiang, cui hanno assistito (o forse sarebbe stato meglio dire sono state costrette ad assistere) ben settemila persone. Il secondo più "normale", ma più importante da un punto di vista simbolico, perché arriva in un momento particolarmente delicato per la Cina: il 25 anniversario della grande strage di Piazza Tiananmen. Un bagno di sangue necessario, a detta dell'esecutivo di allora, per mettere a tacere un gruppo di giovani talmente esaltati da tentare di rovesciare il governo in nome dei massimi simboli di corruzione e decadenza come "libertà" e "democrazia".

Il 9 giugno 1989, ovvero cinque giorni dopo il più feroce massacro che la storia cinese contemporanea ricordi, Deng Xiaoping annunciò ufficialmente che la crisi era stata superata e i problemi risolti. Da quel momento, a nessuno venne più concesso di parlare di Tiananmen o di farvi riferimento anche solo indirettamente. E persino i protagonisti degli scontri in piazza hanno preferito non condividere con nessuno i loro ricordi, consapevoli che qualsiasi dettaglio o segreto relativo a quella tragica giornata avrebbe potuto finire un giorno col mettere nei guai la persona chiamata a custodirlo.

E' molto triste constatare che, dal punto di vista delle gente comune, da allora la situazione in patria è, se possibile, peggiorata. Il governo di Xi Jinping è arrivato al potere promettendo, al fine di recuperare legittimità, rispetto e fiducia, risultati straordinari sia sul piano economico sia su quello sociale, vale a dire in termini di welfare, ambiente e diritti dei lavoratori, sottolineando di aver compreso che sono queste le nuove priorità dei cinesi. Tuttavia, dopo aver capito che il popolo è impaziente e stanco e che è la sua sfiducia ad alimentare il malcontento che così profondamente si respira nel paese, per evitare di vedere la situazione degenerare Xi Jinping si è ritrovato costretto a mantenere la cosiddetta stabilità ricorrendo ai metodi di sempre: zittire il dissenso (e la memoria) con la paura e, quando quest'ultima non è sufficiente, con la forza.

E in quest'ottica che si spiegano il processo di massa di Yining, una messa in scena degna dei tempi delle Guardie Rosse, o gli arresti e le incarcerazioni preventive di attivisti o simpatizzanti degli ideali liberali che iniziarono a plasmarsi proprio a Tiananmen, venticinque anni fa, in una piazza gremita di giovani che chiedevano all'allora leader Deng Xiaoping di seguire l'esempio dell'Unione Sovietica di Michail Gorbačëv, offrendo alla popolazione nuovi diritti e nuove libertà. In questa piazza macchiata di sangue, oggi come allora chiunque sia sorpreso nell'atto di compiere un gesto sospetto (o presunto tale) viene immediatamente circondato, controllato e, se necessario, punito da una delle centinaia di squadre di polizia che pattugliano la zona centimetro per centimetro. Da quando poi la minoranza musulmana dello Xinjiang ha iniziato a incalzare le autorità sul piano della sicurezza mettendo a segno un attentato mortale dopo l'altro, anche al di fuori della loro regione, la situazione è precipitata.

Dal punto di vista di Pechino, se da un lato è quanto mai urgente interrompere la tragica escalation di violenze di matrice uigura onde evitare di perdere credibilità anche dal punto di vista della capacità di mantenere la sicurezza nel paese, dall'altro il terrore del governo è quello di vedere, un giorno, i fantasmi di Tiananmen reincarnarsi in giovani pronti a combattere al fianco degli indipendentisti nella speranza di ottenere, con il loro aiuto, diritti, libertà, ma anche maggiore trasparenza o addirittura partecipazione. Insomma, l'equivalente dell'inferno in terra.

Per cercare di evitare la concretizzazione di questo infausto scenario, il Politburo di Xi Jinping sta cercando di convincere la popolazione che il Partito è di nuovo dalla sua parte, e che oggi più che mai si rende conto che la Repubblica popolare deve "aprirsi". Tuttavia, Pechino spera di far capire ai cinesi che questa fantomatica apertura può essere raggiunta solo andando avanti per priorità. E quindi economia e sviluppo tornano al primo posto, seguiti da lotta alla disuguaglianza, politiche di welfare e maggior rispetto per l'ambiente. Per farcela, però, lo stato non può permettersi di sprecare tempo e risorse per combattere i "terroristi" che minacciano la stabilità della nazione, nello Xinjiang e a Tiananmen, e chiede al popolo di aiutarlo a scovarli. Garantendo anche l'equivalente di 500 euro per un fucile "ritrovato", e fino a mille per chi recupera informazioni sui preparativi di un attentato. Nella speranza che soldi, complicità e sicurezza (che in questo caso significa certezza di essere esclusi dalla lista dei futuri imputati) bastino a prevenire il consolidamento di una sorta di alleanza tra le minorante indipendentiste e le masse. Gli indecisi, invece, verranno presumibilmente persuasi dalla mano forte con cui il Governo sta colpendo gli "indisciplinati".

Prevedere se tutto questo basterà a evitare violenze nella notte tra martedì e mercoledì e a frenare le velleità libertarie del suo popolo è impossibile. Quello che sappiamo è che chi ha vissuto il massacro di Tiananmen non lo può dimenticare. "Volavano proiettili in ogni direzione, sembrava un incubo, ma era realtà. Mi capita ancora di svegliarmi di notte e ripensare ai miei amici rimasti uccisi dalla furia dell’esercito, e al fatto che sono un sopravvissuto che, a conti fatti, ha abbandonato il suo paese", raccontano gli esiliati dell'89. Molti di loro hanno vissuto più tempo all'estero che in Cina, e oggi più che mai non capiscono perché Pechino non si sia ancora resa conto che questa situazione va cambiata. Molti vorrebbero contribuire, ma il paese non glielo permette. Chi ci ha provato è stato o arrestato o riesiliato.

Il governo non ha nessuna intenzione di allentare la presa, ma per fortuna, nonostante tutto, lo stesso vale per gli attivisti. L'unica cosa che possiamo sperare, quindi, è che, un giorno, sempre più cinesi inizino a porsi delle domande su ciò che è successo nell'89, e che trovino qualcuno disposto a rispondere loro. Perché solo a quel punto il Partito sarà davvero costretto a trovare un modo alternativo per gestire le conseguenze di un movimento di emancipazione e sviluppo che non è mai riuscito a sradicare del tutto.

 

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Claudia Astarita

Amo l'Asia in (quasi) tutte le sue sfaccettature, ecco perché cerco di trascorrerci più tempo possibile. Dopo aver lavorato per anni come ricercatrice a New Delhi e Hong Kong, per qualche anno osserverò l'Oriente dalla quella che è considerata essere la città più vivibile del mondo: Melbourne. Insegno Culture and Business Practice in Asia ad RMIT University,  Asia and the World a The University of Melbourne e mi occupo di India per il Centro Militare di Studi Strategici di Roma. Su Twitter mi trovate a @castaritaHK, via email a astarita@graduate.hku.hk

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