La strategia di Israele nella guerra mediorientale
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La strategia di Israele nella guerra mediorientale

Tel Aviv non risponde alle accuse di aggressione di Damasco ribadendo però che ogni tentativo di invio di armi ai nemici di Israele verrà punito

Per Lookout news

Se l’obiettivo era inviare un messaggio chiaro ai suoi nemici in Medio Oriente, Tel Aviv l’ha sicuramente centrato con i raid aerei effettuati alla periferia di Damasco e al confine con il Libano domenica 7 dicembre. Il concetto è stato ribadito ieri dal ministro dell’Intelligence Yuval Steinitz, il quale nel corso di un’intervista radiofonica ha rifiutato di commentare le accuse di aggressione del governo siriano, limitandosi a sottolineare che la politica estera israeliana continuerà a impedire ogni trasferimento di armi ai gruppi terroristici che minacciano la sicurezza del Paese.

 

Poco importa dunque se il regime siriano in risposta si sia rivolto al Consiglio di sicurezza dell’ONU chiedendo l’imposizione di sanzioni nei confronti di Tel Aviv. Israele manterrà la guardia altissima nella guerra siro-irachena, così come sta accadendo d’altronde dall’inizio delle prime rivolte antigovernative nel 2011. Da allora le alture del Golan, occupate da Israele dal 1967, sono presidiate dai militari dell’IDF (Israel Defense Forces) e incursioni aree nei cieli di Siria e Libano sono state più volte ordinate per impedire che missili ed equipaggiamenti militari potessero finire nelle mani delle milizie sciite di Hezbollah, in prima linea nella guerra siriana insieme al governo iraniano in difesa del regime di Assad.

 

L’ultimo raid aereo risaliva al marzo scorso, quando i caccia dell’aviazione israeliana presero di mira postazioni militari siriane nella regione di Quneitra, vicino al Golan, dove carichi di missili anticarro e terra-aria erano in procinto di essere consegnati ad Hezbollah. A gennaio, invece, Israele aveva distrutto numerosi lanciamissili S-300 nella città portuale di Latakia.

 

I raid aerei su Damasco e Dimas
Nel blitz del 7 dicembre, i bersagli colpiti sono stati due: Dimas, città situata al confine con il Libano, e un’area alla periferia di Damasco vicino all’aeroporto internazionale della capitale. In entrambi i luoghi si trovavano depositi militari, come confermato anche dall’Osservatorio siriano per i diritti umani. A Dimas, in particolare, le forze di sicurezza israeliane avevano intercettato carichi di armi inviati dall’Iran e destinati a essere recapitati alle milizie di Hezbollah attraverso i canali del contrabbando.

 

Nelle ultime ore è stata chiamata in causa anche la Russia, che nei mesi passati aveva confermato l’invio in Siria di sistemi di difesa missilistica S-300. Non è chiaro se Mosca abbia avuto un ruolo in questa vicenda, considerato che a settembre il presidente russo Vladimir Putin in persona aveva dato notizia della sospensione della consegna.

 

Ciò che è certo è che il ruolo di Israele nel grande conflitto mediorientale non è mai scemato. In un recente rapporto delle Nazioni Unite è stato inoltre segnalato che negli ultimi 18 mesi nell’area demilitarizzata delle alture del Golan, dove l’ONU è presente con la missione UNDOF (Forza di disimpegno degli osservatori delle Nazioni Unite), sono stati costanti i contatti tra forze di sicurezza israeliane e membri dell’opposizione, a cui sarebbero stati forniti aiuti umanitari e forse anche armi. Interventi che Tel Aviv ha definito indispensabili per sopperire alla mancanza di argini militari di fronte all’avanzata di gruppi qaedisti e dello Stato Islamico.

 

La campagna elettorale in Israele
I raid su Damasco e Dimas hanno come sfondo le vicende interne di Israele. Dopo che il 3 dicembre il premier Netanyahu aveva rimosso dai loro incarichi il ministro delle Finanze Yair Lapid e la ministra della Giustizia Tzipi Livni (entrambi esponenti dell’area di centro), annunciando elezioni anticipate per il prossimo 17 marzo, ieri sera il parlamento ha votato a favore dello scioglimento della legislatura con 93 voti a favore e nessun contrario.

 Membri dell’opposizione hanno accusato il primo ministro di aver volutamente inasprito le tensioni con la Siria per rafforzare il suo progetto di formare un nuovo governo più spostato su posizioni di destra e ottenere così l’appoggio dell’elettorato ultra-conservatore. I vertici del suo partito, il Likud, hanno respinto le accuse definendo “ridicola e pericolosa” un’ipotesi del genere.

 Insomma, in Israele è già tempo di campagna elettorale. E, come già accaduto in passato, è certo che l’aumento del livello di rischio lungo i confini con Siria e Libano influirà sulle scelte degli elettori israeliani.

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