Siria: perché i russi bombardano Homs
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Siria: perché i russi bombardano Homs

Gli USA sanno che in quell’area non c’è lo Stato Islamico e chiedono spiegazioni al Cremlino. Ma la strategia di Mosca è lineare e coerente

Per Lookout news

Non c’è da stupirsi se i primi bombardamenti di Mosca hanno martellato la provincia di Homs, un’area contestata, oggi teoricamente in mano al governo di Damasco, seppure infestata di sacche di ribelli, che premono per sfondare nuovamente. Qui combattono l’esercito, Hezbollah e i ribelli siriani del Fronte Islamico, una sigla che non va confusa con l’ISIS e che comprende numerose fazioni che non hanno aderito al Free Syrian Army.

Homs è considerata la “capitale della rivoluzione”, la prima linea dell’opposizione dagli inizi della rivolta nel 2011 e il centro dei più aspri combattimenti. Militarmente, Homs è un punto strategico e un centro nevralgico, sia per lo spostamento delle truppe sia per la difesa di quelle province che ormai vengono già chiamate “Alawistan”: ovvero la fascia occidentale della Siria che si snoda lungo l’area di confine con il Libano e racchiude la zona costiera, dove sono le roccaforti russe di Latakia e Tartous, fino al confine settentrionale con la Turchia (Aleppo esclusa).

 Da Homs, inoltre, passa la principale autostrada del paese che taglia l’intera Siria e collega direttamente Aleppo a Damasco. È proprio lungo questa linea che sono avvenuti gli scontri più duri. E intorno a quest’area l’esercito siriano si è lentamente ritirato, per meglio proteggere le grandi città in cui si trova la maggior parte della popolazione di confessione sciita-alawita, ovvero la gente del presidente Bashar Al Assad.

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 Una fonte interna al governo di Damasco ha affermato testuale lo scorso maggio: “La divisione della Siriaè ormai un fatto inevitabile. Il regime vuole controllare la costa, le due città centrali di Hama e Homs e la capitale Damasco. Le linee rosse per le autorità sono oggi l’autostrada Damasco-Beirut e l’autostrada Damasco-Homs, così come la costa con le città di Latakia e Tartus”.

 Il 4 maggio 2014, i ribelli siriani avevano raggiunto un’intesa con il governo di Damasco per l’evacuazione di Homs, città sotto l’assedio delle truppe governative dal 2012. L’accordo, che prevedeva la presenza del personale ONU e di rappresentanti iraniani come garanti del rispetto degli accordi raggiunti tra le parti, aveva dato la possibilità a oltre 2mila miliziani ribelli di abbandonare la città simbolo della rivolta siriana e di riparare a nord, nelle aree sotto il controllo delle forze di opposizione. In quell’occasione, avvenne il rilascio di alcuni militanti libanesi e iraniani in mano al Fronte Islamico e l’autorizzazione a lasciar passare gli aiuti diretti a due città a maggioranza sciita, situate a nord di Aleppo e assediate dai ribelli.

 

 Questo per dare l’idea di quanto Homs sia significativa. Dunque, niente di strano se la strategia del Cremlino, almeno in questa prima fase, è orientata a creare una sorta di cintura di sicurezza, che protegga le aree alawite dove il regime è ancora integro. La battaglia contro lo Stato Islamico può attendere. Del resto, una guerra non s’improvvisa e, a differenza degli americani, i russi stanno dimostrando di avere le idee ben chiare circa il loro ruolo e sanno meglio di chiunque altro come muoversi in questo paese, dove soldati e famiglie russe risiedono da decenni.

 L’obiettivo strategico dell’iniziativa militare di Mosca è dunque evidente: da un lato, assicurare che la fascia costiera siriana resti saldamente nelle mani di Assad; dall’altro, mantenere il controllo di un territorio sufficiente a garantire la sopravvivenza fisica delle minoranze siriane alawite e cristiane, e la sopravvivenza politica del regime.

 Per questo, continueranno a operare bombardando soprattutto queste aree, infischiandosene se del caso anche dello Stato Islamico. E per questo la Casa Bianca ha gridato strumentalmente allo scandalo e chiesto un coordinamento Pentagono-Cremlino. Il problema, infatti, è un altro. Che succede se i russi iniziano a bombardare i ribelli sostenuti dagli Stati Uniti? O, peggio, se qualche aereo “alleato” viene abbattuto per sbaglio? La cosa non andrebbe a finire bene.

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Luciano Tirinnanzi