Il governo del prigioniero
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Il governo del prigioniero

C’è chi si è accorto che il progetto di mettere fuori gioco l’ex premier per via giudiziaria potrebbe rivelarsi un boomerang: il suo consenso resta alto, può continuare la battaglia in altre forme... e sorprendere

La ratifica della condanna a Silvio Berlusconi doveva sancire, oltre che la bizzarria del Paese che dà dell’evasore fiscale al suo maggiore contribuente, la conclusione di un ciclo. Game over. La reazione di Berlusconi, e dei suoi Arcinemici, riapre tutti i giochi. Curioso paradosso, ma tipico di tutta la lunga avventura di stato del berlusconismo, movimento popolare e di governo fondato e governato da un imprenditore privato dopo la crisi devastante dei vecchi partiti politici, «ammazzati» dalla loro storia e dal partito dei magistrati divenuto un potere forte.

Ora, messe da parte le sbrigative e maramaldesche cerimonie degli addii, rivelatosi una gaffe l’annuncio prematuro della morte politica del «reo», tutti guardano al mese di ottobre. È quella la nuova deadline, il limite temporale fissato più o meno congruamente al governo Napolitano-Letta-Berlusconi. Il condannato non vuole sentir parlare, adesso, dello scenario catastrofico: battaglia frontale, primo scalpo per tutti l’esecutivo uscito dalle elezioni che garantisce un minimo appiglio a chi parla di fine della recessione e di accenno di ripresa.

Giustizieri a parte, gli resta tutta la forza politica necessaria a decidere dei destini della politica, e la vita di un ministero è l’essenza della politica; usa questa forza e delude chi lo voleva incastrato in una reazione di necessità superba, insipiente, capace di regalare agli Arcinemici quel che loro vogliono, la fine di ogni commistione, la definitiva cassazione per via coattiva e giudiziaria di quasi 10 milioni di voti. 

Sentite cosa dice il New York Times nell’editoriale del 6 agosto. Non tutti i giornalisti stranieri, peraltro equamente prevenuti in senso liberal, sono allo stesso modo ignoranti e stupidi come l’editorialista del Financial Times che ha dato del «buffone» al tramonto al capo politico provvisoriamente espulso dal sistema. «Per Berlusconi, 76 anni, la condanna potrebbe significare la fine della sua carriera politica come leader del partito di centrodestra in Italia. Ma senza rivali chiaramente definiti, e con una sua figlia di 46 anni, Marina, cresciuta come il fiore di famiglia, Berlusconi potrebbe continuare a essere determinante in politica da dietro le quinte. Circa 10 milioni di italiani lo hanno votato, con la sua coalizione, nel febbraio scorso».

Capito? C’è chi si è accorto che il progetto di mettere fuori gioco Berlusconi potrebbe rivelarsi un sogno, il suo consenso è resistente, c’è modo per lui di continuare la battaglia in altre forme nonostante le conseguenze legali della Cassazione. Fossero sicuri di sé, della loro leadership che ancora manca e di un vero consenso maggioritario, tutt’altro che acquisito, i mille capi della sinistra del Pd e associati avrebbero chiamato la fine dei giochi, e non si sarebbero fatti portare nel campo delle tirate d’orecchie istituzionali, avrebbero bensì dato il via all’operazione mediaticopolitica orchestrata dal partito della Repubblica e di Carlo De Benedetti: usare come una clava la sentenza arrivata dopo vent’anni di tentativi per il finale regolamento dei conti. 

Ma c'è qualche problema, e se non ci credono quando glielo spieghiamo noi, credano almeno all’editorialista del New York Times. Ottobre potrebbe rivelarsi un generico scenario di date per retroscenisti in fregola di fantasticherie. Per esempio. Assodato che per alcuni mesi Enrico Letta continuerà a governare con Berlusconi come alleato decisivo, e con Angelino Alfano come suo vice, l’economia europea e italiana lavora per lui, per la stabilizzazione. Il governo fa pochino, è fragile, ma quel pochino che fa è necessario, è percepito come una garanzia anticrisi.

I segnali di ripresina non sono molto confortanti, e sono anche contraddetti da oscure profezie sull’implosione dell’euro come zona integrata e politicamente dotata di un futuro strategico, ma ci sono: un avvitamento speculativo renderebbe virtualmente inamovibile il governo Letta, e una ripresa meno precaria pure. Il perché è chiaro, ottobre o non ottobre: alle avventure elettorali ci si dedica quando possibile, quando il rischio si attenua, non quando si è nel mezzo di un guado politico e finanziario.

Certo, prima o poi si rivota. Non è detto che Giorgio Napolitano e Letta riescano a risanare anche solo parzialmente il sistema con riforme credibili, non è detto che riescano a condurre la nave oltre il 2014, oltre le europee, nella presidenza semestrale italiana dell’Unione. Non è nemmeno detto che Berlusconi, senza il quale tutto questo sarebbe solo fumo, non sia costretto dagli eventi a chiedere anticipatamente un’ordalia popolare per la rivincita su chi lo ha cacciato dalle istituzioni, personalmente. 

E allora sì, si può parlare dell’autunno e di ottobre come di una finestra dalla qualesi possa vedere un paesaggio di nuovo apertamente conflittuale. Ma è allo stato delle cose soltanto una ipotesi tra le altre. Da quando c’è Berlusconi, la politica italiana ha stupito il mondo, e gli italiani. Ha abituato tutti a grandi sorprese. Non ci si annoia mai. Matteo Renzi ha aperto tante speranze a sinistra, ma la sinistra considerandolo di destra le ha seppellite con le tecniche note d’apparato: potrebbe essere tardi per rinverdire il mito del leader giovane, che modernizza tutto, che supera l’antiberlusconismo d’accatto, che è vincente perché nuovo e diverso.

Allearsi con i somarelli di Beppe Grillo e Roberto Casaleggio per procurarsi una legge elettorale ad hoc? Ma quello vuole la proporzionale per contare di più, il vecchio comico annoiato è abbastanza sveglio per capire che schiacciato a sinistra e sul maggioritario farebbe di nuovo uno splash politico, e prenderebbe la metà dei voti delle ultime elezioni. Grandi sorprese rigeneranti dall’estrema sinistra manettara, alleata della Repubblica e della lobby azionista di Gustavo Zagrebelsky, non sono alle viste: avete presente che fine ha fatto il partito di Antonio Ingroia e Marco Travaglio alle elezioni di febbraio?

E allora procediamo con calma e sapienza verso un ottobre che potrebbe essere sorprendente, ma per ragioni diverse da quelle coltivate e sperate dai mozzorecchi che amano vincere per sentenza togata, riparati sotto le sottane della casta giudicante, e non nelle urne.

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Giuliano Ferrara