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EPA/JIM LO SCALZO
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Si all'Impeachment per Donald Trump: cosa succede ora

Il Presidente Usa a processo per due reati. La palla passa al Senato. Trump: "vogliono annullare le elezioni. E' un suicidio politico"

Donald Trump è in stato d’accusa. Ieri, la Camera dei Rappresentanti ha formalmente avviato il processo di impeachment contro il presidente, approvando i due capi d’imputazione che erano stati presentati la scorsa settimana dalla commissione giudiziaria: abuso di potere e intralcio al Congresso. Trump è diventato così il terzo presidente americano a essere stato ufficialmente messo in stato d’accusa dalla Camera dopo Andrew Johnson (nel 1868) e Bill Clinton (nel 1998).

Se il Partito Repubblicano ha fatto compattamente quadrato attorno al presidente, l’asinello ha invece registrato qualche crepa interna. Per il primo capo di imputazione, due deputati democratici hanno votato contro, mentre per il secondo sono stati tre a esprimersi a sfavore. In entrambi casi inoltre la deputata delle Hawaii e attuale candidata alla nomination democratica, Tulsi Gabbard, ha votato “presente”. Quest’ultima ha sempre mostrato perplessità sulla messa in stato d’accusa del presidente e la mossa di ieri le attirerà probabilmente adesso le critiche delle fazioni clintoniane, che già in passato l’avevano accusata di voler separarsi dal Partito Democratico e condurre una campagna elettorale autonoma.

Il dibattito politico frattanto si è infuocato. “È tragico che le azioni sconsiderate del presidente rendano necessario l'impeachment. Non ci ha dato scelta”, ha affermato la Speaker della Camera, Nancy Pelosi. Dura la reazione del leader della minoranza, il repubblicano Kevin McCarthy, che ha accusato l’asinello di aver avviato “l'impeachment più partigiano e meno credibile della storia americana”.  Duro anche lo stesso Trump che ieri sera, durante un comizio in Michigan, ha attaccato i democratici, definendo l’impeachment “un suicidio politico”, finalizzato a sovvertire i risultati delle presidenziali del 2016.

La palla adesso passerà al Senato, dove si celebrerà il processo, presieduto dal giudice capo della Corte Suprema, John Roberts. I leader della camera alta hanno fatto sapere che il procedimento non avrà inizio prima del 6 gennaio, mentre si stanno già verificando aspri battibecchi tra repubblicani e democratici. Il capogruppo democratico al Senato, Chuck Schumer, aveva chiesto pochi giorni fa di chiamare a testimoniare alcuni funzionari dell’amministrazione Trump: una proposta che il leader della maggioranza, il repubblicano Mitch McConnell, ha tuttavia rispedito seccamente al mittente. In caso di condanna, Trump verrebbe rimosso dal suo incarico: una possibilità tuttavia abbastanza remota. Per arrivare a un verdetto di colpevolezza è infatti richiesto un quorum di due terzi dei voti e attualmente i repubblicani detengono la maggioranza in Senato con 53 seggi: anche dunque in caso di qualche defezione (pensiamo al senatore dello Utah, Mitt Romney, o alla senatrice del Maine, Susan Collins), risulta altamente improbabile un verdetto di colpevolezza. Si pensi che, nei due casi precedenti di impeachment il Senato fosse controllato dal partito avverso rispetto a quello del presidente in carica. E che – ciononostante – nessun inquilino della Casa Bianca sia finora stato condannato.

Quello che sarà invece interessante capire è in che modo i repubblicani porteranno avanti stavolta il processo: soprattutto in termini di tempistica. L’impeachment contro Clinton fu avviato il 19 dicembre del 1998 e si concluse il 12 febbraio dell’anno successivo, mentre per Johnson furono impiegati circa tre mesi (dal 2 marzo al 26 di maggio). E l’incognita oggi riguarda proprio la durata del processo. Alcuni big repubblicani, come lo stesso McConnell e Lindsey Graham, hanno dichiarato di voler accelerare il più possibile i tempi, per archiviare presto la faccenda. La Casa Bianca non ha invece mostrato di avere troppa fretta. Non bisogna però trascurare che, nel caso si andasse per le lunghe, l’impatto peggiore potrebbe sorgere per il Partito Democratico. Non solo infatti il processo rischierebbe di oscurare mediaticamente le primarie dell’asinello (che inizieranno il 3 febbraio con il caucus dell’Iowa). Ma non dobbiamo neppure dimenticare che alla nomination democratica siano attualmente candidati svariati senatori (Bernie Sanders, Elizabeth Warren, Amy Klobuchar, Cory Booker e Michael Bennet): costoro rischiano quindi di rimanere bloccati in Senato nella fase iniziale delle primarie. Un’eventualità che potrebbe azzoppare seriamente la loro candidatura, vista la delicatezza di quella fase elettorale. In tal senso, non è ancora del tutto escludibile che la leadership repubblicana possa decidere di sforare la fine di gennaio, proprio con l’intenzione di creare il parapiglia in seno alle primarie democratiche.

Tutto questo, mentre un sondaggio diffuso ieri da Gallup mostra due dati significativi: a partire da ottobre il tasso di approvazione per Trump è salito dal 39% al 45%, mentre il sostegno per l’impeachment è sceso al 46% (sei punti in meno dalla fine di settembre). Recenti rilevazioni, condotte dal Washington Post, hanno inoltre evidenziato una significativa impopolarità dell’impeachment anche in alcuni Stati chiave per le presidenziali del 2020 (come Florida e Michigan). Non è del resto un mistero che l’effetto boomerang sia particolarmente temuto dalle parti dell’asinello, soprattutto da quei deputati democratici che rappresentano distretti in cui Trump vinse nel 2016. Questo, senza poi dimenticare che Clinton abbia raggiunto il massimo della popolarità in otto anni di presidenza proprio nelle settimane in cui fu messo in stato d’accusa. Infine, ricordiamo che – alla conclusione dell’indagine per impeachment dedicata allo scandalo Watergate – Richard Nixon venne abbandonato da molti compagni di partito: fattore che lo portò a dimettersi, prima che la Camera votasse formalmente per metterlo in stato d’accusa. Trump, a questo stadio, conta invece sul sostegno di gran parte del Partito Repubblicano.

Il presidente è accusato dai democratici di aver esercitato indebite pressioni sul suo omologo ucraino, Volodymyr Zelensky, per ottenere l’apertura di un’inchiesta sull’attuale candidato democratico, Joe Biden. In particolare, Trump avrebbe subordinato gli aiuti economici americani a Kiev in cambio di tale favore. Il punto è che prove irrefutabili di questo comportamento non sono state reperite nel corso delle audizioni tenutesi alla Camera negli ultimi due mesi: audizioni che hanno prodotto testimonianze farraginose e confuse. Contrariamente ai casi di Johnson e Clinton, la “pistola fumante” stavolta non è quindi stata trovata. Un altro elemento di dibattito riguarda poi la presenza o meno di eventuali reati. Ammesso e non concesso che il “do ut des” fosse dimostrato, siamo realmente certi si tratterebbe di un atto penalmente rilevante? La fattispecie della “corruzione” (genericamente invocata dai democratici) non si attaglia infatti – stando al codice penale americano – alle relazioni internazionali: un ambito – quest’ultimo – in cui la Costituzione conferisce al presidente un’elevatissima discrezionalità. È vero che secondo molti giuristi non sia necessario un comportamento penalmente rilevante per giustificare un processo di impeachment (tanto più che questo procedimento attiene al potere legislativo e non a quello giudiziario): resta tuttavia il fatto che, slegare pressoché completamente un impeachment da una base penale, significa rendere questo strumento un’arma di natura meramente politica. L’impeachment fu concepito dai padri costituenti come estrema risorsa per mettere sotto controllo il potere esecutivo. Oggi sembra diventato invece una sorta di voto di sfiducia. Un voto di sfiducia che tuttavia la Costituzione americana non prevede.

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Stefano Graziosi