Il ruolo dell’Italia nella “Prima Guerra del Gas”
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Il ruolo dell’Italia nella “Prima Guerra del Gas”

Il braccio di ferro USA-Russia rischia di stritolare l’Europa, e l’Italia in primis, il cui futuro energetico dipende ancora molto da Mosca e da Tripoli e non può giovarsi delle “buone intenzioni” di Washington

per Lookout News

Negli ultimi giorni il presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, ha tentato di far crescere la temperatura della crisi nei rapporti con la Russia, minacciando esplicitamente l’intervento militare della NATO in caso di violazione delle frontiere ucraine da parte delle forze armate di Mosca. 

La minaccia è stata presa contestualmente all’esclusione (non si sa se permanente) della Russia dal G8 che, nelle intenzioni di Obama, deve tornare ad essere un G7. La minaccia d’intervento militare in difesa dell’Ucraina appare quantomeno eccessiva, visto che lo statuto della NATO prevede l’intervento dell’Alleanza soltanto per la difesa dei suoi membri. 

Considerare l’Ucraina come un Paese de facto nell’orbita NATO, non fa altro che dare fondamento ai timori di Mosca di una progressiva scomparsa di quelle aree cuscinetto che evitavano che fossero attigui i confini tra la NATO e la Russia. 

Il Cremlino si sente evidentemente accerchiato e la situazione dal punto di vista del presidente Vladimir Putin non è certo allegra, anche alla luce dello sconcertante contenuto dell’intercettazione telefonica del 18 marzo durante la quale l’ex premier dell’Ucraina, Yulia Tymoshenko, capofila del fronte anti-russo, dice che bisognerebbe sparare a “quei maledetti russi insieme al loro leader” e che bisognerebbe usare “le armi nucleari” contro gli 8 milioni di russi presenti in Ucraina.

Anche se la Russia non è la Serbia e la Crimea non è il Kosovo, a Mosca è ancora fresco il ricordo dell’intervento unilaterale della NATO nei Balcani e dei bombardamenti su Belgrado. Per questi motivi forse occorrerebbe misurare di più le parole, almeno se non si hanno chiari gli obiettivi strategici. Prima di tracciare una nuova “linea rossa”, ad esempio, Barack Obama dovrebbe rendere chiaro a tutti dove vuole andare a parare. 

Al momento, l’unico indizio realistico delle intenzioni americane sembra quello di voler approfittare di una possibile crisi dei rifornimenti di energia all’Europa in caso di “guerra delle sanzioni” con Mosca, tentando di diventare così il primo fornitore di gas per il Vecchio Continente. 

- La crisi energetica e l’Italia

In caso di crisi energetica, occorre tener conto del fatto che anche l’Italia sarebbe colpita, dato che dipende dalla Russia per il 28% del gas totale consumato (mentre il 38% del gas che arriva in Germania viene dalla Russia senza passare per l’Ucraina, attraverso il gasdotto North Stream). 

L’Italia è fortemente impegnata nella costruzione dell’altra via alternativa al transito del gas attraverso l’Ucraina e cioè il South Stream, la cui costruzione però si potrebbe interrompere proprio in caso di crisi nei rapporti commerciali con la Russia. 

Il presidente degli Stati Uniti si è detto disponibile a vendere all’Europa lo shale gas, per sostituire quello di provenienza russa. Al momento, però, questa non può essere considerata più che una battuta: il gas è, infatti, considerato dalla legge americana un bene strategico e la sua esportazione deve essere autorizzata dal Congresso. Visto che è proprio di stamattina (26 marzo) la notizia che il Senato di Washington ha bloccato il programma di aiuto all’Ucraina da parte del Fondo Monetario Internazionale (la cui approvazione il presidente aveva dato per scontata), non è detto che lo stesso Congresso autorizzi in tempi rapidi le esportazioni di shale gas attraverso l’Atlantico. Esportazioni che, comunque, non potrebbero tecnicamente partire prima del 2015 o 2016.

- Lo shale gas

Lo shale gas è un cosiddetto “gas non convenzionale” che si estrae dalle rocce a profondità di oltre 1.500 metri con un procedimento di trivellazione e frantumazione (noto comefracking) che utilizza una miscela d’acqua, sabbia e additivi chimici per liberare il gas imprigionato nei depositi rocciosi. 

Lo shale sta assicurando agli USA l’indipendenza energetica e la disponibilità di energia a prezzi dimezzati rispetto a quelli del gas convenzionale. L’Europa ha ancora un atteggiamento ambivalente nei confronti dello shale gas: da un lato, il 21 novembre 2013 il Parlamento Europeo ha sancito il diritto di ogni Paese membro a decidere in autonomia in materia di esplorazione e sfruttamento di shale gas. Dall’altro, ha anche invitato i governi europei ad approntare una rigida legislazione che limiti gli effetti ambientali dell’estrazione del gas, il consumo dell’acqua e imponga severi controlli sugli additivi chimici usati nelle miscele per la frantumazione idraulica. 

Inoltre, lo shale non è di facile consumo come il petrolio o come il gas convenzionale: per renderlo utilizzabile, una volta liquefatto e trasportato in Europa, occorre trasformarlo attraverso una rete di rigassificatori. 

Vista la permanente sindrome Nimby (Not In My Backyard), che in Italia finora è riuscita a bloccare qualsiasi progetto di costruzione di nuove infrastrutture energetiche (centrali a ciclo combinato, centrali a biomasse, rigassificatori, etc.), quanto è realistico pensare di sbattere la porta in faccia ai russi per comprare un’ipotetica risorsa energetica che forse non potremmo mai usare?

- La Libia come alternativa

Secondo l’amministratore delegato dell’ENI, Paolo Scaroni, l’Italia potrebbe trarre giovamento dalla riapertura del mercato libico, diversificando così le fonti di approvvigionamento. Eppure, anche questo è un percorso abbastanza difficile: le tentazioni secessioniste della Cirenaica, lo strapotere delle milizie (che non esitano a vendere in proprio petrolio anche ai nordcoreani) e il rapimento il 22 marzo di un tecnico italiano dipendente di una società di costruzioni, stanno a indicare che la situazione in Libia ad oggi non è tale da consentire di considerare Tripoli un interlocutore affidabile e stabile. 

Quanto la situazione sia precaria lo denuncia il comportamento dell’ex premier Ali Zeidan, che dopo essere stato sfiduciato per il caso della Morning Glory - la petroliera nordcoreana che trasportava un carico illegale di petrolio e che è stata poi assaltata dai Navy Seals americani – non si è ritirato a vita privata come qualunque primo ministro deposto, ma si è dato alla fuga in Europa.

Da un aumento delle tensioni tra Europa, Stati Uniti e Russia, insomma, l’Italia ha tutto da perdere. E l’Europa, come sempre, non riesce a trovare una voce comune: Spagna, Portogallo e Gran Bretagna non comprano neanche un metro cubo di gas da Mosca, mentre come ha sottolineato ancora Scaroni “Austria, Polonia e Bulgaria senza il gas di Mosca sono al freddo dall’oggi al domani”. 

Forse è il momento del realismo nelle relazioni tra l’Europa e il Cremlino. In questo contesto, l’Italia di Matteo Renzi, proponendosi come mediatrice tra USA e Russia, contribuirebbe a riportare tutti sul sentiero della ragione e, nell’anno che segna il centenario della Prima Guerra Mondiale, potrebbe conseguire un risultato storico, facendo fruttare quelle capacità di mediazione che hanno sempre contraddistinto la nostra politica estera. Nel frattempo, moderare i toni e tenere buoni i militari.   

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Luciano Tirinnanzi