Come riformare (davvero) la scuola
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Come riformare (davvero) la scuola

A pochi giorni dall'inizio della maturità, spunti e riflessioni a margine di un Convegno a Venezia sulle strategie per riqualificare l'intero percorso di studi, fino al mondo del lavoro

I venti di cambiamento soffiano forte. Il referendum di Bologna boccia i finanziamenti pubblici alle scuole private, promuovendo la scuola pubblica. Dalla Spagna Umberto Eco invoca il ritorno delle università all'essere un luogo di élite (“ci sono troppi studenti”, dice). E nel mezzo non si sente parlare di merito, ascensore sociale, programmazione scolastica in linea con i ranking europei, proprio mentre scopriamo che in Italia un giovane su 4 non studia né lavora (dato Istat, il peggiore in Europa).

Quanto ci costa l’istruzione non per tutti? Quanto ci costano l’abbandono scolastico e la perdita dei talenti a causa delle loro famiglie monoreddito, incapaci di pagare le università di élite? L’Ocse ci colloca agli ultimi posti della classifica europea per competenze, mobilità sociale, preparazione adeguata alle richieste del mercato. E già oggi - sarà contento Eco - risulta che solo il 62,2 per cento degli occupati si trova in una scala diversa da quella della sua famiglia di origine, che i figli di laureati hanno il 30 per cento di possibilità in più di iscriversi a un liceo e che soltanto il 10 per cento degli studenti il cui padre non ha fatto le superiori ottiene la laurea (contro il 33 per cento di Spagna, 35 per cento di Francia e il 40 per cento della Gran Bretagna).

Che fare dunque per riformare la scuola in senso positivo e davvero per tutti? La risposta è multipla: riqualificazione della formazione tecnica; posticipo della scelta dell’indirizzo di studi a 16 anni, per evitare errori e conseguenti abbandoni scolastici nella media-superiore; valorizzazione dei meriti individuali, siano essi degli studenti come degli insegnanti.

Un recente convegno, organizzato alla Fondazione Giorgio Cini di Venezia in occasione dell’assemblea annuale dei Cavalieri del Lavoro introdotta dal presidente Benito Benedini, ha dimostrato infatti come l’Italia spenda per ogni studente più degli altri Stati europei… "ma ottenendo risultati inferiori a quelli degli altri Paesi", sottolinea l’imprenditore Pietro Marzotto, "e questo succede perché la scuola ha mantenuto un modello elitario pur essendo fortunatamente diventata di massa". Qualcosa va dunque cambiato, ma non nel senso che vorrebbe lo scrittore de “Il Nome della Rosa”…

“Un sistema educativo deve misurarsi anche in termini di mobilità sociale e occupazionale che produce, misurabile in termini di Pil”, spiega Marco Magnani, senior research fellow all’Università di Harvard. “Si tratta quindi di migliorare il ritorno privato dell’investimento in istruzione, che rende più delle infrastrutture, attiva meccanismi economici virtuosi grazie alla valorizzazione dei talenti e nel lungo periodo produce anche un aumento del gettito fiscale”.

Il problema è però come. Soprattutto in un Paese dove la scuola è stata spesso valutata in termini di tagli e non di valorizzazione. “Si può anche intervenire a costo zero attuando alcuni semplici correttivi”, prosegue Magnani. In primis: gli indirizzi di studi devono essere scelti secondo talento e passione, subendo meno il condizionamento delle famiglie. E perché vada davvero così, è necessario che gli studenti stessi ne siano consapevoli: “Le esperienze internazionali dimostrano che sarebbe bene posticipare il momento della scelta dell’indirizzo di studi superiori, portandola ad esempio a 16 anni come avviene in Finlandia, dove la mobilità sociale è aumentata del 20 per cento”, afferma ancora Magnani. “Quindi occorre cambiare la struttura degli esami scolastici, modificandoli da 'esami di uscita' a 'esami di ingresso', e soprattutto bisogna permettere di correggere gli eventuali errori aumentando la permeabilità tra un indirizzo di studi e un altro, facilitando i passaggi correttivi”.

Naturalmente, tali riforme a costo zero sono inutili se non interviene anche un cambiamento culturale, insegnando ai ragazzi la cultura del sacrificio e dell’impegno, ridando fiducia in virtù fortemente minate dal nepotismo, dalla mancanza di merito e dalla crisi economica che impedisce a molte famiglie di far studiare i figli promettenti in istituti prestigiosi. "Per questo servono anche meccanismi finanziari premianti per i più capaci", riprende Marco Magnani.

Indispensabile poi anche una rivalutazione della formazione tecnica, visto che in Italia solo il 18 per cento dei lavoratori ha una qualificazione elevata contro il 32 per cento dell’Unione Europea. Per riuscirci, è fondamentale rendere più stretto il rapporto tra istituti tecnici e imprese, rivalutando al contempo il "saper fare", che non necessariamente ha bisogno di una laurea. Al proposito, interessante la riflessione di Gianfelice Rocca, presidente del Gruppo Techint e di Assolombarda: “L'emergenza della crisi del lavoro chiede risposte concrete e immediate, per i giovani e per le imprese. Un bouquet di soluzioni diverse per risolvere problemi diversi. Primo, l'apprendistato, nelle sue articolazioni, come leva di placement e strumento per unire produzione e formazione. I tirocini formativi e di orientamento possono essere occasioni agili per incontrare e conoscere neo-diplomati e neo-laureati. Ma anche lavoro a termine, buoni lavoro e contratti di somministrazione di lavoro sono alternative - flessibili e subito disponibili - che possono offrire ai giovani l'opportunità di essere cittadini attivi e alle imprese di produrre nelle migliori condizioni possibili".

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Antonella Bersani

Amo la buona cucina, l’amore, il mirto, la danza, Milan Kundera, Pirandello e Calvino. Attendo un nuovo rinascimento italiano e intanto leggo, viaggio e scrivo: per Panorama, per Style e la Gazzetta dello Sport. Qui ho curato una rubrica dedicata al risparmio. E se si può scrivere sulla "rosea" senza sapere nulla di calcio a zona, tennis o Formula 1, allora – mi dico – tutto si può fare. Non è un caso allora se la mia rubrica su Panorama.it si ispira proprio al "voler fare", convinta che l’agire debba sempre venire prima del dire. Siamo in tanti in Italia a pensarla così: uomini, imprenditori, artisti e lavoratori. Al suo interno parlo di economia e imprese. Di storie pronte a ricordarci che, tra una pizza e un mandolino, un poeta un santo e un navigatore e i soliti luoghi comuni, restiamo comunque il secondo Paese manifatturiero d’Europa (Sì, ovvio, dietro alla Germania). Foto di Paolo Liaci

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