Ma le sanzioni non fermeranno il caos in Libia
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Ma le sanzioni non fermeranno il caos in Libia

L'Occidente pronto ad adottare sanzioni per impedire nuove violenze a Tripoli e Bengasi. Ma lo Stato Islamico ha ormai messo radici anche qui

Per Lookout news

Basterà una dichiarazione congiunta per fermare il caos libico? La risposta ovviamente è no, né potrebbe cambiare la sostanza il fatto che a firmarla siano stati il 18 ottobre i governi di Francia, Italia, Germania, Regno Unito e Stati Uniti. Impegnato quasi esclusivamente sul fronte mediorientale, il blocco occidentale ha così provato a battere un colpo in direzione di Tripoli, condannando le violenze che in Libia ormai da mesi si susseguono al ritmo di decine di morti al giorno e chiedendo l’immediata cessazione delle ostilità tra le varie milizie che si contendono il controllo del Paese. Considerato il livello degli scontri che nelle ultime ore hanno interessato tanto la capitale quanto Bengasi – così come le aree strategiche in cui sono situati aeroporti, giacimenti e terminal petroliferi e del gas -, è però difficile credere che il messaggio sia arrivato ai destinatari. La lettera appare dunque come la classica dichiarazione di buoni intenti, contornata da una serie di accuse e da una timida minaccia di intervento qualora la situazione non dovesse stabilizzarsi.

 Il dito è puntato contro i partiti politici, mostratisi incapaci di far rispettare l’accordo per il cessate il fuoco per cui si era lavorato nelle scorse settimane sotto l’egida delle Nazioni Unite a Ghadames prima e Tripoli poi. Nel mirino dell’Occidente c’è anche il gruppo terroristico islamico Ansar Al Sharia e tutte quelle altre milizie armate che “minacciano la pace, la stabilità e la sicurezza della Libia”. E non manca una frecciata anche nei confronti del discusso ex generale Khalifa Haftar, l’uomo a capo della campagna antiterrorismo “Operazione Dignità”, colpevole di agire autonomamente e di non attenersi ai comandi delle forze armate regolari.

 

Impossibile una soluzione politica alla crisi
La soluzione a questo grande caos, secondo l’Occidente, non può essere militare ma politica, e dovrebbe condurre al riconoscimento della Camera dei Rappresentanti quale unico e legittimo parlamento e, successivamente, alla formazione di un governo di unità nazionale. In caso contrario, sarebbe possibile l’adozione di sanzioni individuali contro chi “tenta di sabotare il processo politico” in corso, secondo la Risoluzione 2174 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite.

 La cura scelta dall’Occidente per curare il malato libico francamente non sembra però adeguata. Nonostante l’avvio dei primi negoziati, di fatto in Libia continuano a esistere due parlamenti. Uno, legittimamente eletto alle elezioni del 25 giugno scorso, è confinato a Tobruk, è a maggioranza laica ed è guidato dal premier Abdullah Al Thinni. L’altro invece è stabilito a Tripoli ed è espressione delle fazioni islamiste.

 A questa frammentazione politica corrisponde una fragilità militare evidente. La settimana scorsa per la prima volta l’esercito ha appoggiato ufficialmente l’offensiva lanciata a Bengasi da Haftar. Tra il 15 e il 16 ottobre, con il sostegno di tank e caccia dell’esercito regolare, le milizie dell’ex generale si sono scontrate a più riprese con gli islamisti della Brigata dei Martiri 17 febbraio. L’operazione, costata la vita ad almeno 50 persone, non ha però sortito gli effetti sperati e da allora non si è smesso di combattere in alcuni quartieri periferici della città, tra cui Guewarsha, Garyunes, Hay Masekin e Shibna.

 Altro epicentro degli scontri è la città di Kakla, sui monti al Gharbi nella parte occidentale della Libia. Qui i morti negli ultimi nove giorni di combattimenti tra i soldati di Haftar e le milizie islamiste di Misurata sarebbero stati più di 100. In questo scenario l’Occidente sembra inoltre non accorgersi della presenza sempre più capillare in Libia di cellule dello Stato Islamico. Il 3 ottobre il Consiglio della Shura della Gioventù islamica di Derna (SCIY), legato direttamente ad Ansar Al Sharia, aveva giurato fedeltà al Califfato di Al Baghdadi. E pare che l’IS in queste settimane abbia inviato centinaia di miliziani dalla Tunisia, dall’Iraq e dalla Siria per sostenere la causa islamista. Il rischio è che questa ondata possa contagiare presto anche le tribù berbere locali e travolgere definitivamente quel che resta dello Stato libico.

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