Sangue e amore
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Sangue e amore

Una giovane cambogiana si sta sottoponendo a regolari sedute di salasso-terapia per riconquistare il marito

C’è chi va in Cambogia per osservarne i paesaggi , chi per confrontarsi con la memoria di un terribile genocidio che ha lasciato tracce in ogni angolo del Paese, ma pochi si fermano a riflettere sulle conseguenze che lo sterminio portato avanti da Pol Pot negli anni '70 ha lasciato sul piano sociale e culturale, oltre che politico ed economico.

La foto di questa settimana lo conferma: è stata scattata a Siam Reap, in un mercatino poco lontano da Banteay Srei, tempio dedicato alla divinità indiana Shiva, di cui si narra che i preziosi bassorilievi siano stati scolpiti solo da donne, visto che le mani degli uomini non avrebbero mai potuto essere tanto precise e meticolose.

Ebbene, la protagonista di questo scatto ha una ventina d'anni, vive nelle campagne vicine al tempio, e da qualche tempo frequenta regolarmente la bancarella delle stoffe di Banteay Srei per evitare di essere ripudiata dal marito.

Attenzione però: l'uomo che questa giovane cambogiana ha sposato non ha minacciato di "abbandonarla al suo destino" perché desidera che anche lei trovi un lavoro e contribuisca così a mantenere la famiglia o perché non gli ha ancora assicurato una discendenza, ma soltanto perché si è convinto che gli spiriti del male si siano impossessati di lei...costringendola a sottoporsi a un ciclo di sedute di salasso per liberarsene.

Sì, salasso, avete capito bene, stiamo parlando di quella terapia, tipica del Medioevo, con cui con siringhe, bisturi a molla, tazze di vetro contenenti aria calda, e talvolta persino sanguisughe venivano prelevate considerevoli quantità di sangue dai pazienti per "purificarli".

Nella Cambogia di oggi questa "cura" non solo esiste, ma viene addirittura considerata particolarmente efficace per risolvere tanti "disturbi psicologici" o "spirituali" da cui con le medicine sintetizzate in laboratorio sarebbe quasi impossibile guarire.

La protagonista dell'immagine di questa settimana, del resto, sembra felice. Non prova nessun imbarazzo a lasciarsi fotografare. E anche quando ci racconta la sua storia si vergogna per "essersi lasciata infettare dagli spiriti maligni", non per aver scelto di sottoporsi a un ciclo di salasso per guarire.

Come è possibile che nel 2013 ci siano ancora persone convinte che dal "male" ci si possa liberare in questo modo? Forse questo è uno degli aspetti più forti di una nazione che negli ultimi quarant'anni si è evoluta pochissimo, ma una storia come questa non può non farci riflettere sugli effetti di un genocidio di cui si è sempre parlato poco.

Una volta arrivati in Cambogia è impossibile non percepire l'assenza di un'intera generazione. Molti di quelli che oggi avrebbero tra i quarantacinque e i settant'anni sono morti. Vittime delle nefandezze del regime di Pol Pot.  Due milioni di persone in tutto. Otto secondo altre fonti.

Con loro se ne sono andati anche i ricordi. Su come si cucinava, quelli sulle storie raccontate nei villaggi, su come si costruiscono le case. Persino i ricordi su quali sono le parole da usare. I genitori ammettono di non conoscere storie da raccontare ai loro bambini mentre si addormentano: quando erano piccoli loro il concetto di intrattenimento era già stato spazzato via dalla furia del regime. E nelle case c'era spazio solo per l'angoscia. Da vivere nel silenzio più assoluto.

A un certo punto i sopravvissuti hanno iniziato a rendersi conto che il paese non può crescere senza punti di riferimento, o senza conoscere il proprio passato. Se cosi fosse, dovrebbe rinunciare a una fetta importante della propria identità. Ma il problema è che i sopravvissuti sono vecchissimi, e i ricordi che conservano sono legati a esperienze di grande povertà e profonda arretratezza.

Ed è proprio per questo che una tecnica inutile, oltre che pericolosa, come il salasso, continua ad essere praticata. In attesa che i giovani e giovanissimi crescano con la voglia e gli stimoli necessari per costruire una nuova identità per questo paese dimenticato.

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Claudia Astarita

Amo l'Asia in (quasi) tutte le sue sfaccettature, ecco perché cerco di trascorrerci più tempo possibile. Dopo aver lavorato per anni come ricercatrice a New Delhi e Hong Kong, per qualche anno osserverò l'Oriente dalla quella che è considerata essere la città più vivibile del mondo: Melbourne. Insegno Culture and Business Practice in Asia ad RMIT University,  Asia and the World a The University of Melbourne e mi occupo di India per il Centro Militare di Studi Strategici di Roma. Su Twitter mi trovate a @castaritaHK, via email a astarita@graduate.hku.hk

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