Coronavirus, per il vaccino servirà almeno un anno, forse tre
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Salute

Coronavirus, per il vaccino servirà almeno un anno, forse tre

Chi parla di mesi per avere a disposizione la cura al virus sbaglia, come spiega a Panorama il prof. Rino Rappuoli di GSK Vaccines

Sulla messa a punto di un vaccino, oltre che di farmaci efficaci contro il coronavirus asiatico, si stanno concentrando gli sforzi dei principali laboratori al mondo. Lo scorso 23 gennaio la Coalition for Epidemic Preraredness Innovations (Cepi) ha deciso di sovvenzionare con 12,5 milioni di dollari le multinazionali che lavorano su un potenziale vaccino, e ha annunciato anche la collaborazione con l'azienda GSK. Sui modi e i tempi di un vaccino contro questo virus Panorama ha intervistato Rino Rappuoli, Chief Scientist di GSK Vaccines.

Quanto tempo serve a voi scienziati per mettere a punto un vaccino, normalmente?

«Dalla ricerca di laboratorio al mercato, quando il vaccino è a disposizione di tutti, 15-20 anni».


Rino Rappuoli, Chief Scientist GSK VaccinesUff. Stampa GSK


Così tanto?

«È il tempo impiegato per la maggior parte dei vaccini: in condizioni di emergenza, come nel caso del coronavirus di Wuhan, i tempi possono però essere scorciati di molto. L'esempio più recente è Ebola. Nel 2014 si è iniziato a registrare il vaccino alla Fda americana, e nel dicembre 2019 è entrato in commercio».

Perché allora non si segue sempre l'iter più veloce?

«Perché in genere i vaccini vengono dati a persone sane contro potenziali malattie, quindi i benefici devono essere di gran lunga superiori a eventuali rischi o effetti indesiderati. C'è un'attenzione maniacale in ogni fase del loro sviluppo, nella preparazione, nelle condizioni di sterilità e sicurezza, nella produzione... Nel caso del coronavirus questo passaggio può essere accelerato quindi...In situazioni di emergenza il rapporto rischi/ benefici è diverso, i benefici sono molto più rispetto ai rischi potenziali e il processo è più veloce. Per questo coronavirus non c'è al momento nulla di efficace, vaccini o farmaci. E poi c'è un'altra cosa: normalmente, una domanda alle agenzie regolatorie, Fda, Emea, Aifa, per l'approvazione di un vaccino richiede mesi. In un caso di urgenza globale si siedono tutte intorno a un tavolo e si crea una squadra mondiale».

In definitiva, quando potremo aspettarci un vaccino efficace contro questo coronavirus?

«Da uno a tre anni, a seconda delle tecnologie e di quanto si riesce ad accelerare».

Mi spiega un po' di più come si fa?

«Si prende la sequenza genetica del coronavirus messa a disposizione dalle autorità sanitarie cinesi, e dal genoma del virus si prepara in laboratorio un vaccino sintetico che ne replica l'Rna e che poi si inietterà nei pazienti. Dieci anni fa non avevamo ancora la tecnologia per poter fare vaccini a Rna, si usava il Dna, ma era una strada meno veloce».

Con questa tecnica, invece, potremo avere il vaccino anche prima di tre anni?

«In una settimana possiamo arrivare al prototipo, poi inizia la fase più lunga e difficile, verificare che funzioni in vitro, in vivo e sull'uomo, tutti test che richiedono 7-8 mesi di tempo. Da uno a tre anni è il tempo più ragionevole».

Ma non c'è la possibilità che nel frattempo l'epidemia sia scomparsa?

«La possibilità c'è, è quello che è successo quando noi abbiamo messo a punto il vaccino per la Sars, l'epidemia che si diffuse nel 2002. Preparammo un vaccino a tempi record con la tecnica ricombinante, nel giro di tre mesi l'avevamo sperimentato sugli animali, dopo 5 o 6 mesi sull'uomo, ma non è mai andato in commercio proprio perché la Sars era sparita dalla circolazione. Ma con il coronavirus di Wuhan il discorso è diverso».

In che modo lo è?

«L'epidemia di Sars alla fine si esaurì perché era un'influenza molto grave, aveva un tasso di mortalità elevata, del 10 per cento: i pazienti si riconoscevano a vista, era facile isolarli e infettavano solo al culmine della malattia. Fu più semplice, nonostante il panico, effettuare una quarantena efficace e fermare il contagio».

Invece il coronavirus è un'altra storia?

«Il coronavirus di provenienza asiatica è poco letale ma assai più contagioso, si trasmette molto bene da persona a persona anche con sintomi non gravi o non apparenti. È assai più difficile da contenere, tra un anno è probabile che l'infezione sia ancora tra noi. È vero che finora la situazione è fuori controllo più che altro in Cina, nel resto del mondo sono arrivati i casi di contagio primario. Ma se iniziasse a dilagare diventerebbe una pandemia, e in questo caso un vaccino sarebbe molto utile».

Al momento diverse multinazionali mondiale stanno lavorando al vaccino, qual è il vostro contributo?

«Stiamo mettendo a disposizione il nostro sistema adiuvante AS03, lo stesso usato nei vaccini di GSK per l'influenza pandemica. Gli adiuvanti sono sostanze che potenziano il sistema immunitario, in pratica lo stimolano in modo che reagisca meglio al vaccino. È una tecnologia molto difficile da realizzare, ci abbiamo messo circa 30 anni per metterla a punto. Siamo gli unici al mondo ad avere questo tipo di adiuvanti, che hanno dimostrato la capacità di indurre un'immunità e una protezione molto ampia. Questo significa che il vaccino può contenere una quantità più ridotta di antigene per dose e comunque stimolare la risposta immunitaria richiesta, consentendo quindi di produrre più dosi di vaccino. Proprio per questo era giusto metterla a disposizione di tutti».

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Daniela Mattalia