Rieducare all'attività fisica dopo la pandemia
Salute

Rieducare all'attività fisica dopo la pandemia

La prima puntata della serie «Come rimettersi in movimento dopo il lockdown», realizzata in collaborazione con l'Associazione italiana di fisioterapia.

«Per tornare in forma, prima ancora di mettersi a dieta occorre muoversi». È categorico, il dottor Vincenzo Avallone, riabilitatore e psicologo clinico, già direttore del corso di laurea in Fisioterapia all'università Luigi Vanvitelli di Napoli. «Perché» spiega, «per stare in salute, bisogna essere attivi». L'intervista ad Avallone apre una serie di Panorama dedicata alla remise en forme post pandemia, realizzata da un'idea della riabilitatrice Branka Pavic in collaborazione con l'Associazione italiana di fisioterapia. Con approccio scientifico, una serie di addetti ai lavori spiegheranno, attraverso interviste e video, come recuperare il controllo del proprio corpo dopo le restrizioni imposte dal Covid-19. Per tornare come prima e anche meglio di prima.

Quali sono stati gli effetti della pandemia sul corpo delle persone?

«Occorre premettere che la questione importante è pensare alle persone nel loro insieme, non alla singolarità e alla differenziazione. Perciò è fondamentale, in primis, definire il concetto di salute. La salute non può essere scomposta: il problema è che si scinde la mente dal corpo. E quindi si guarda tutto in funzione degli organi. E in questa pandemia è successo proprio questo: si è badato unicamente agli organi. Ma non basta, perché la persona è un insieme patico noetico e prassico».

Ossia?

«Ciò che una persona sente, prova e fa è un tutt'uno. Non è possibile frazionare. E invece, in genere, che cosa succede? Si fa dipendere tutto dall'organo, dalla fisicità. Non si tiene conto della persona. E pensare che è dal 1948 che l'Organizzazione mondiale della sanità dice di considerare la salute come un insieme».

Che cos'ha detto esattamente l'Oms nel '48?

«Ha definito la salute come completo stato di benessere fisico, mentale e sociale e non solo come assenza di malattia. Perché se una persona non ha lavoro, non sta bene; se non ha una casa non sta bene; se non ha rapporti sociali non sta bene. E potremmo continuare all'infinito. Invece ci si focalizza sulla parte fisica. Tutto questo provoca una serie di problematiche immense. Nella cura, le persone non vengono più considerate tali, ma diventano in qualche modo oggetti. Si oggettivizza tutto, per cui non ci si prende cura della persona ma si curano organi. È grave che a 73 anni di distanza dalla dichiarazione dell'Oms, parliamo di tre quarti di secolo, ci sia ancora questa visione. L'aspetto divertente è che, sulla facciata esterna del Ministero della salute a Roma, c'è una targa che riporta la definizione di salute dell'Organizzazione mondiale della sanità».

È paradossale...

«È chiaro che con quest'approccio non si si risolvono i problemi. Figuriamoci in tempi di pandemia: io ho visto persone che dormivano con la testa sotto le coperte per la paura di essere infettate... C'è stato il terrore. E figuriamoci se poi queste persone andavano a pensare all'attività motoria, che è fondamentale. D'altra parte, dopo questa definizione del '48, le nazioni si sono riunite nella conferenza di Ottawa, nel 1986 (parliamo sempre di 35 anni fa), dove hanno stabilito che bisogna "promuovere salute". E quindi fare attenzione all'ambiente, agli stili di vita, alla giusta alimentazione, all'attività fisica... Tutte cose dette ma non realmente percepite, perché non si dà loro la minima importanza. E questo provoca disastri in continuazione».

In particolar modo adesso, con la pandemia.

«In particolar modo adesso. La conseguenza di quest'approccio è stata drammatica sui disturbi: c'è stato un aumento di ansia, fobie, depressioni, suicidi, dipendenza da sostanze... E anche l'aumento del consumo dei cibi. Tutto ciò deriva da questa visione dualistica (mente-corpo), che in qualche modo ha fatto piacere alla medicina perché è molto più semplice badare al corpo anziché a tutta la persona. Ma in tempi di pandemia tutto questo si paga. Una grave mancanza del Comitato tecnico scientifico è che non vi erano presenti psicologi, psichiatri, sociologi, educatori. Sarebbero stati necessari proprio per tenere conto di tutta la persona».

È la medicina narrativa che ha quest'approccio a 360 gradi, vero?

«Certo, certo. Si tratta di una medicina che non vede la persona ridotta a organismo, cioè trattata a "pezzi", bensì nel suo insieme. Quindi è necessario l'ascolto della storia e delle storie delle singole persone, che sono protagoniste della propria malattia. Perché la patologia anche se è uguale, in due persone non è la stessa. Qualche anno fa un ospedale francese ha addirittura assunto un consulente letterario per insegnare agli operatori sanitari come approcciare le persone che venivano ricoverate».

Ma perché la medicina narrativa non prende piede?

«Perché gli operatori sanitari (dai medici agli infermieri) hanno un'ottima preparazione tecnica, ma hanno poca preparazione umanistica. Sono professioni che in qualche modo sono a cavallo fra la scientificità delle varie discipline e l'umanizzazione, perché prevedono il contatto con le persone. Ma la preparazione in ambito umanistico è talmente poca, per cui è chiaro che gli operatori sanitari non sanno come approcciare e relazionarsi con i pazienti. La medicina continua a essere iperspecialistica, però manca di umanizzazione, perché le persone che entrano in contatto con la cura diventano oggetti: "Si spogli", "si stenda". Ad ogni modo, la medicina narrativa un po' alla volta sta prendendo piede: adesso stanno facendo anche dei Master».

Tutto questo cosa c'entra con la necessità di rimetterci in movimento dopo il lockdown?

«C'entra perché l'attività motoria è una delle fondamentali attività per far sì che la persona rimanga in salute. Anzi, dovremmo promuoverla sempre. L'attività motoria non si sarebbe mai dovuta bloccare e mi fa molto piacere adesso vedere che in qualche modo si stia pensando di riaprire le palestre. Con le dovute cautele, certamente. Riprendere l'attività motoria è fondamentale, perché altrimenti avremo un aumento delle patologie organiche. Già molte persone non si muovono: preferiscono andare dal nutrizionista a farsi prescrivere una dieta, non capendo che l'aspetto principale è l'attività motoria, di cui c'è assolutamente bisogno».

Il movimento perciò deve venire ancora prima della dieta?

«Esatto. Già la passeggiata di un'oretta al giorno, iniziando con la mezz'ora, è una cosa importantissima. Ottimo poi, per chi ci riesce, fare un po' di corsa. Stando molto attenti ai tempi. Bisogna fare molta attenzione seguendo tabelle particolari, per esempio correndo un minuto e poi camminando un minuto. È fondamentale educare le persone al movimento, cosa che purtroppo non facciamo».

La consapevolezza è aumentata, ma siamo ancora indietro.

«Assolutamente. Tutt'al più si vede un po' attività in più in prossimità della prova costume. Ma l'attività motoria deve entrare nella quotidianità, non solo a maggio o a giugno. Qui entriamo nell'ambito del salutismo, cioè la possibilità di fare cose che servono: sì all'attività motoria e alla giusta alimentazione, no agli abusi di alcol e fumo. E poi, altro aspetto importantissimo, è la salutogenesi».

Che cos'è la salutogenesi?

«È la possibilità di stimolare salute. Nel salutismo e nella medicina preventiva abbiamo la possibilità di mantenere salute. La salutogenesi, invece, è tutto ciò che permette alle persone, anche in situazioni di avversità, di compiere scelte consapevoli di salute, usando risorse interne ed esterne. La salutogenesi è stata elaborata dall'israelo-americano Aaron Antonovsky, un sociologo della medicina che seguì delle donne che erano state in campo di concentramento, scoprendo che alcune erano uscite in buone condizioni. Cercò di capire come ciò fosse stato possibile e si rese conto che alcune persone hanno risorse generali di resistenza, che andò poi a definire come "senso di coerenza". Per dirla in breve, è quella consapevolezza che permette di capire cosa sta accadendo nel proprio ambiente, poter esercitare un certo controllo sugli eventi, avere voce in capitolo. E anche trovare un significato agli eventi che accadono. Poi Antonovsky parla della metafora del fiume: dice che per far attraversare un fiume, non dobbiamo costruire ponti, ma dobbiamo far sì che che le persone imparino a nuotare».

Allora bisogna acquisire gli strumenti per rimanere in buona salute e anche per migliorarla?

«Per stimolarla. E quindi superare le difficoltà. Per chiudere il cerchio, il dualismo cartesiano è stato superato dai fenomenologi, come Edmund Husserl e Martin Heidegger. Ma, pure qui, parliamo di inizi Novecento. Ma sono cose che non sono passate ancora, tranne che in piccole isole. Tutto è rimasto uguale».

Ma questa presa di coscienza non c'era già stata nell'Antica Grecia?

«Giusto. Ippocrate lo diceva: "Medici, non pensate solo al corpo, pensate anche all'anima". Ma questo ci fa riflettere su che cosa? Che in realtà abbiamo avuto un aumento tecnologico immenso, ma di pari passo c'è stato un forte arretramento del pensiero. Quindi c'è stata un'inversione, proprio perché si è andati incontro la tecnicismo. Si è persa l'umanizzazione. Questo è il problema grosso della medicina odierna. E quindi del vivere delle persone, che non si sentono trattate. Invece vanno ascoltate, ma non per farle contente. Perché quest'ascolto va a incidere e a modificare i termini della cura».

Concretamente, dunque, occorre mettere al primo posto il movimento quotidiano?

«Esattamente: movimento quotidiano. E non quel finto movimento per cui sentiamo tante persone che dicono "Ma tanto io mi muovo". Andare per vetrine non serve: bisogna camminare a una certa andatura. Quindi la passeggiatina lenta non fa male, ma non è che serva a tanto».

Quindi la passeggiata dev'essere di buon passo?

«Bisogna camminare, camminare, camminare. Le persone sono disabituate. Tutti gli aggeggi elettronici, come i cancelli elettrici e i telecomandi, ci hanno praticamente immobilizzato. Stiamo andando al paradosso che noi come riabilitatori stiamo facendo di tutto per alzare le persone dalle sedie e poi, con tutta questa tecnologia, le stiamo mettendo a sedere. È grave: anche perché se si disabituano a muoversi, le persone si impigriscono. Prendiamo l'ascensore: se forse a salire può avere un senso, scendere le scale con l'ascensore è grave. È veramente grave. Significa che non c'è proprio l'educazione al movimento, l'educazione motoria».

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Elisabetta Burba