Sabrina e Cosima in carcere: forse il giudice ha paura che scappino in Brasile
di Annalisa Chirico Sabrina e Cosima sono presunte colpevoli. L’idea sottotraccia nelle diciotto pagine firmate dal giudice dell’udienza preliminare, che ha rigettato l’istanza di scarcerazione presentata dalla difesa. No, Sabrina e Cosima rimarranno dietro le sbarre. Senza un brandello …Leggi tutto
di Annalisa Chirico
Sabrina e Cosima sono presunte colpevoli. L’idea sottotraccia nelle diciotto pagine firmate dal giudice dell’udienza preliminare, che ha rigettato l’istanza di scarcerazione presentata dalla difesa. No, Sabrina e Cosima rimarranno dietro le sbarre. Senza un brandello di sentenza. Per loro niente arresti domiciliari.
Il destino processuale delle due sembra segnato. Sono colpevoli nell’immaginario collettivo, sono colpevoli per il giudice ancor prima del processo. Eppure dal 1989 in Italia vige il processo accusatorio, la prova si forma nel dibattimento. Qui invece le lame inquisitorie tagliano, eccome. In queste diciotto pagine, anziché motivare la necessità di confermare la galera, il giudice motiva una sentenza di condanna.
Non spetta a me, né a voi, né al circuito mediatico tagliare con un filo netto la colpa e l’innocenza. Le sentenze le fanno le toghe, non le penne. Una pretesa però la possiamo avanzare anche noi, da umili cittadini. Che le regole e le garanzie siano rispettate anche da parte di chi quelle regole e quelle garanzie è chiamato a farle rispettare in nome del popolo sovrano.
Chi di voi sa che la Suprema Corte di Cassazione ha già annullato con rinvio, per ben due volte, l’ordinanza di custodia cautelare nei confronti di Sabrina e Cosima? In altre parole, la Suprema Corte ha redarguito la Procura di Taranto: “Così com’è motivata, l’ordinanza è illegittima. Motivatela meglio”. Addirittura, la Suprema Corte ha messo nero su bianco che i gravi indizi di colpevolezza a carico delle due sono insussistenti.
Il Codice di Procedura Penale è chiaro. La custodia cautelare in carcere è una delle misure possibili, e il giudice nel valutare il singolo caso deve attenersi ai principi di adeguatezza e proporzionalità. Il carcere è la misura estrema ed eccezionale, a cui ricorrere quando ogni altra misura risulti inadeguata. Come dirlo meglio?
La custodia cautelare nasce come strumento per tutelare le indagini. Per applicarla devono sussistere i gravi indizi (non sospetti!) di colpevolezza e almeno una delle esigenze cautelari (pericolo di fuga, manomissione delle prove, reiterazione del reato).
Ora, a detta del gup, nel caso di Sabrina e Cosima ci sarebbero tutte e tre le esigenze. Le vedete, vero, le due pronte a fuggire per il Brasile sulle tracce di Battisti? Come no, latitanti professioniste. Sabrina non è fuggita dopo l’arresto del padre. Cosima è stata arrestata sette mesi dopo il ritrovamento del corpo, e pure lei è rimasta lì, in quella casa, quando la notizia del suo arresto circolava già da giorni.
E poi il carcere è davvero l’unico rimedio? Esistono gli arresti domiciliari, l’obbligo di dimora, il braccialetto elettronico (!). Il controllo sugli sposamenti si può espletare in modi alternativi, meno afflittivi. Il giudice si spinge a dire che il “clamore mediatico” della vicenda potrebbe indurre “estimatori e possibili sodali” delle due (presunte innocenti) a favorirne la latitanza. Certo, verso il Brasile sulle tracce di Battisti. Le due, inoltre, potrebbero inquinare le prove. Anche qui il giudice trascura il fatto che, se c’era qualcosa da inquinare, le due hanno avuto tutto il tempo per farlo. Il pericolo di inquinamento probatorio, lo dice la legge, deve essere concreto e attuale. Per il gup in questo caso sarebbe addirittura “allarmante”. Non si capisce sulla base di quale elemento. Dulcis in fundo, il pericolo di reiterazione del reato. Orbene, anche l’uomo di strada si rende subito conto che qualcosa non torna. Questa è infatti un’esigenza impura e, non a caso, la più abusata. Essa si fonda sulla prognosi di una recidiva nei confronti di un presunto innocente. L’articolo 27 della Costituzione, da quanto ne so, non è caduto in prescrizione perché nessuno lo applica. “Fatti simili, di tale eclatante gravità – sentenzia il gup – ben difficilmente possono essere ritenuti episodici”. Lo hanno fatto, potrebbero rifarlo.
Io non so se lo hanno fatto. Attendo la sentenza definitiva del giudice al termine del processo. Avrei preferito che il giudice non giocasse d’anticipo. Io so quello che la legge dice. Che siamo presunti innocenti fino a sentenza definitiva. Che al processo, di regola, dovremmo andare senza i ferri ai polsi, senza inutili umiliazioni, in una condizione di vera parità con l’accusa. So che il giudice dovrebbe essere terzo, dovrebbe dare del lei al pm e non soltanto all’avvocato della difesa. Dovrebbe.
Nelle esplosive carceri italiane il 42% dei detenuti è in regime di custodia cautelare. La media europea è del 25. Oltre ventottomila persone in attesa di giudizio. La metà di queste sarà dichiarata innocente. Ci sono i Naria, i Tortora, i Sollecito, a ricordarcelo, ma i magistrati hanno la memoria corta. Meglio un innocente in galera che un colpevole a piede libero. “Pochi, maledetti e sicuri” (i giorni in galera), questa la regola d’oro. La carcerazione preventiva è divenuta uno strumento di anticipazione della pena, il calmiere dell’allarme sociale. I processi vanno per le lunghe? Allora anticipiamo. Tanto in caso di errore paga lo Stato, paghiamo noi. La shakespeariana libbra di carne per saziare la sete di (in)giustizia. Di vendetta. Fino a quando?