Donald Trump
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Tutte le bufale su Donald Trump

Il Russiagate doveva essere la fine della presidenza Usa, è stato il più grande flop del giornalismo d'inchiesta Usa

Sull’indipendenza e la determinazione della stampa americana Hollywood ha costruito pellicole da Oscar. Da Tutti gli uomini del presidente a Spotlight per arrivare a The Post, i film che hanno per protagonisti giornalisti che non si arrendono davanti al potere, ma scavano fino a svelare i segreti di politici e cardinali, fanno ormai parte della storia del cinema, con incassi milionari e riconoscimenti di ogni tipo. Ma chissà se ci sarà un regista che avrà il coraggio di raccontare con la macchina da presa il più grande flop del sistema dell’informazione, americano, ma non solo. Chissà se domani ci sarà un produttore che avrà la forza di finanziare un film sulla caduta degli dei, ossia sulla fine dell’innocenza del giornalismo d’inchiesta.

In Italia si è riflettuto poco su quello che è successo la scorsa la settimana. Qualcuno ha messo la notizia in prima pagina, altri quotidiani invece hanno preferito più pudicamente nasconderla all’interno. Ma la presentazione del Rapporto Mueller, dal nome del procuratore speciale che negli Stati Uniti ha indagato sul cosiddetto Russiagate, non è un atto d’accusa contro Donald Trump ma, paradossalmente, contro i media che lo incolpavano. Nella relazione consegnata dopo due anni d’indagini, aperte su sollecitazione della grande stampa, non ci sono imputazioni contro il presidente degli Stati Uniti, come il mondo si aspettava perché i giornali e le televisioni questo avevano fatto credere a tutti. Ma c’è una sottintesa presa d’atto che molte delle cose scritte o fatte trapelare sui mezzi di comunicazione di massa erano un cumulo di sciocchezze.

Trump non è un agente del Kgb o un uomo al servizio dell’ambasciata russa. Né è stato eletto alla Casa Bianca perché Mosca ha scatenato i suoi hacker, violando la rete di protezione dei democratici o alterando il risultato elettorale. The Donald è diventato il 45esimo presidente degli Stati Uniti semplicemente perché gli americani lo hanno votato, preferendolo all’algida e spocchiosa Hillary Clinton. Per il mondo del cinema, della cultura e dell’informazione mainstream, l’ex segretaria di Stato aveva le carte in regola per guidare l’America.

La favola bella di un presidente nero che consegna gli Stati Uniti a una donna colta e ben inserita nell’establishment internazionale piaceva all’élite. Peccato che non piacesse agli elettori, i quali preferirono il rozzo costruttore del Queens, con i capelli arancione, alla sofisticata ex first lady. Il ceto medio impoverito dalla crisi, gli operai rimasti senza lavoro perché le grandi aziende avevano preferito trasferire le produzioni all’estero, i cristiani trattati come oscurantisti solo perché si permettevano di richiamare i valori della fede e della famiglia, votarono in massa per Trump nonostante il 99 per cento della stampa e l’80 per cento degli attori più premiati d’America si fosse schierato a favore di Hillary. Il risultato spiazzò tutti, grandi esperti compresi, i quali, essendosi fidati dei vari sondaggi Gallup, scoprirono che la gente votava con la propria testa e non con quella di Wall Street o della Silicon Valley. Che Robert De Niro o Meryl Streep detestassero Trump, agli elettori non importò un fico secco. Anzi, forse fu motivo per votare lui al posto di Hillary.

Risultato, la grande stampa, dal New York Times al Washington Post, dalla Cnn al Wall Street Journal si incaricarono di correggere la scelta degli americani. Da subito cominciò una caccia grossa per trovare qualche cosa che facesse cadere il presidente. La parola d’ordine da subito fu «impeachment». Si voleva che The Donald facesse la fine di Richard Nixon, cacciato con ignominia per il Watergate, ossia per lo spionaggio nel quartiere generale dei democratici. I segugi dell’informazione aprirono un’inchiesta subito denominata Russiagate. Al centro, i legami tra l’inquilino della Casa Bianca e Vladimir Putin, per dimostrare che una potenza straniera, anzi la potenza straniera per eccellenza, aveva condizionato le elezioni americane.

Alla fine, dopo due anni di indagini che hanno portato anche alla nomina di un procuratore speciale, Robert Mueller appunto, l’unica cosa che si sa è che probabilmente in passato Trump ha fatto sesso con una pornostar e il suo avvocato l’ha pagata durante la campagna elettorale perché stesse zitta. Il legale della donna, colui che la spinse a violare il patto di riservatezza, è finito in carcere con l’accusa di estorsione ai danni della Nike e lei è sparita dai talk show di prima serata. Ecco, tutto qui. Anni di indiscrezioni, accuse d’ogni genere all’entourage del presidente, ma nulla che dimostri che alla Casa Bianca c’è un traditore. In poche parole, un flop. Non della giustizia americana: del sistema dei media, i quali hanno scatenato una campagna di stampa senza prove. Soprattutto solo per partito preso: il loro. I cani da guardia che vigilano sul potere, messi al servizio di un potere a cui gli elettori avevano voltato le spalle.

Il problema naturalmente non riguarda solo la carta stampata e le tv americane, ma anche quelle di casa nostra. Tanto per dare un’idea, La Repubblica e La Stampa, solo negli ultimi sei mesi hanno pubblicato 120 articoli su questo tema, vale a dire uno ogni tre giorni. Secondo voi quanti ne pubblicheranno per ammettere di aver preso parte a una caccia alle streghe? Non so dirvelo. Ma ho la sensazione che nessun film racconterà mai la storia di una stampa che per ragioni politiche voleva riscrivere la storia.
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Maurizio Belpietro