Renzi e Letta e il virus del dualismo comunista
ANSA / MATTEO BAZZI
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Renzi e Letta e il virus del dualismo comunista

Il segretario del Pd e il premier, pur essendo di estrazione dc, entrano nell'infinita telenovela dei duellanti a sinistra, vittime del centralismo (anti) democratico

Anche Matteo Renzi ed Enrico Letta ci sono cascati. Anche loro, di estrazione democristiana, colpiti dal virus del dualismo, figlio «degenere» del comunismo.

I giornali ci sguazzano. Editoriali, articolesse a tutto spiano. Ma la diagnosi è difettosa. Non va all’origine vera della malattia. Non si possono mischiare gli scontri tra le correnti dc con quelli tra i Giorgio Amendola e Pietro Ingrao o tra i Massimo D’Alema e Walter Veltroni. Nella Dc le correnti erano ammesse. Anzi, la Dc era tutta una corrente, roba da cappottoni e passamontagna. Vincevano gli uni e al secondo round gli altri. E ai congressi democristianamente ci si poteva anche menare.

Nel Pci no, veniva tutto messo a tacere sotto il manto del centralismo democratico. Ovvio che lo scontro alla fine diventa personale. 

La notizia è che Renzi e Letta sono colpiti da un virus di matrice rossa, il dualismo figlio impazzito del centralismo (anti) democratico. Basti dire che solo nel 1992, i «miglioristi» di Giorgio Napolitano e Emanuele Macaluso ebbero il coraggio di ufficializzare la loro corrente. Il Pci è morto, sepolto definitivamente dal giovane «Matteo», le scorie dei suoi riti però colpiscono ancora. Renzi prova a liberarsene invitando Letta, il premier, a«scoprire le carte». Ma intanto, loro due, che, secondo Macaluso a Panorama.it , «per un po’ dovranno far finta di convivere» (ma il gran vecchio, arguto analista politico lo diceva un mese e mezzo fa), sono già inseriti nella storia della interminabile telenovela dei duellanti a sinistra.

Tra Pietro Ingrao, il sinistro, e «Giorgione» (Amendola) il destro, gli scontri furono epici, ma alla fine convennero entrambi sull’invasione ungherese. Solo Peppino Di Vittorio, fondatore della Cgil, si contrappose a Palmiro Togliatti. Confidò ai più stretti collaboratori, dopo la fucilazione di Imre Nagy: «quelli non sono compagni ma assassini». Ma poi decise unanimemente, con l’eccezione di Antonio Giolitti che sbattè la porta, il comitato centrale. 

All’ombra dello stesso schema dell’unanimismo a tutti i costi, malattia infinita del comunismo, si sono scornati D’Alema e Veltroni. Enfant prodige, con tanto di togliattiana benedizione, figlio di un parlamentare pci il primo; borghese, pariolino di sinistra, il secondo, figlio del primo direttore del telegiornale Rai nel 1954. Come potevano prendersi?

«Massimo», che passava la vita tra sezioni, federazioni e Frattocchie; «Walter», invece di sera al Pincio con Pier Paolo Pasolini e Ferdinando Adornato e quando era proprio costretto a frequentare la scuola di partito, a tavola (si mangiava benissimo) anziché Bandiera rossa canticchiava Mina, «io non ti conosco, non so chi sei…; «Massimo», brutale, diretto, ma anche più schietto e paradossalmente nel modo di fare meno comunista del compagno-coltello.  Il 21 agosto del 1989, nell’anniversario della morte del «Migliore» quei «discoli» di Renzo Foa e Piero Sansonetti (condirettore e vicedirettore) se ne uscirono su «L’Unità» con un titolo clamoroso «C’era una volta Togliatti», rovinando le ferie a mezza nomenclatura rossa. D’Alema che era il direttore con i suoi «discoli» se uscì così: «Fate come credete, i giornalisti siete voi». Nello stesso modo, da premier nel 2000 dette il là a Peppino Caldarola per l’editoriale «Fate tornare Craxi in Italia, senza essere piantonato». Il  giornale di Antonio Gramsci fu sepolto da una montagna di fax giustizialisti. Con Veltroni non sarebbe davvero successo.

Una volta «Walter», allora direttore,  si infuriò, ma non potette fare a meno di pubblicarla, per un’intervista fatta dalla sottoscritta ad Oporto (l’Italia era in piena Tangentopoli) al presidente della Repubblica, il socialista Mario Soares che ad un certo punto se ne uscì con un «ma che stanno facendo in Italia al mio amico Bettino?». Eppure «Walter» era, a differenza di «Max», accomodante, eternamente gentile, mondano. Ma sotto il sorriso nascondeva il comando. Duro, ferreo. Da grande giornalista, è  stato probabilmente il più bravo direttore dell’ «Unità», ma con metodi nei fatti più «comunisti» di D’Alema. Veltroni aveva il mantra della società civile; D’Alema quando gliela nominavano metteva mano alla pistola politica, lui uomo di partito fino al midollo. Eppure, il loro infinito duello è finito sotto la melassa del centralismo democratico imperante anche ai tempi del Pds-Ds. Le rispettive figlie dissero che li chiamavano «zio Walter» e «zio Massimo». Ma altro che «zii». «Scorse il sangue», direbbe D’Alema, tanto per usare una frase ricorrente nel suo vocabolario. Erano al  top dello scontro: D’Alema battè Veltroni per la segreteria del Pds il primo Luglio 1994. Veltroni tornò in redazione a «L’Unità» e si consolò con una morettiana Nutella, regalatagli da qualche spiritoso redattore. I due non si sono mai sopportati. Fino a generare il sospetto, ma solo un sospetto sicuramente infondato, per carità, che Veltroni, segretario dei Ds, avesse chiuso i battenti all’Unità nel luglio 2000, facendo arrivare i liquidatori, proprio mentre D’Alema era lì a portare la solidarietà ai redattori.

Tra i duellanti si inserì il terzo incomodo. Romano Prodi, ma il «Professore» si rivelò incomodo solo per «Max». 

I maligni narrano ancora oggi che furono in realtà Prodi (premier) e Veltroni (vicepremier) a premere nell’ombra perché D’Alema si dimettesse da premier, solo per aver perso alle elezioni regionali. Tutti a sinistra accusano ancora Silvio Berlusconi di aver rovesciato il tavolo della Bicamerale. Ma il vero affossatore narrano che sia stato proprio Prodi. Assago, 1998, congresso di Forza Italia. Il Professore, ancora premier, da Roma sparò: «È la Bicamerale del nulla!». Poche settimane dopo saltò tutto.  D’Alema attaccò frontalmente Berlusconi. Solo qualche battuta enigmatica su Prodi. E così fu a posto con le regole della casa, ovvero con il centralismo democratico. Con questi giochini la sinistra è morta di tattica, senza mai prendere una scelta chiara, una linea comprensibile davanti agli italiani. Morta di tattica, forse senza neppure rendersene conto. 

Uno dei momenti più esilaranti degli scontri tra Prodi e D'Alema fu quando, secondo la leggenda, «Max» segretario dei Ds si presentò a Palazzo Chigi, dopo inutili tentativi di contattare il premier al telefono. Le segretarie lo avrebbero accolto così: «Ma il presidente non c'è...». D'Alema: «Allora lo aspetto qui, tanto oggi non ho nulla da fare...». Un caffé, un secondo caffé, un bicchiere d'acqua a «Baffino», momenti di imabrazzo. E di colpo Prodi si materializzò, con il suo faccione sorridente.

Ora si spera che «Matteo» ed «Enrico» guariscano dal virus che viene da lontano, coltivato in laboratori rossi e un po’ russi estranei alla loro storia. La sinistra ci è morta, ma il Paese non può.

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Paola Sacchi

Sono giornalista politico parlamentare di Panorama. Ho lavorato fino al 2000 al quotidiano «L'Unità», con la mansione di inviato speciale di politica parlamentare. Ho intervistato per le due testate i principali leader politici del centrodestra e del centrosinistra. Sono autrice dell'unica intervista finora concessa da Silvio Berlusconi a «l'Unità» e per «Panorama» di una delle prime esclusive a Umberto Bossi dopo la malattia. Tra gli statisti esteri: interviste all'ex presidente della Repubblica del Portogallo: Mario Soares e all'afghano Hamid Karzai. Panorama.it ha pubblicato un mio lungo colloquio dal titolo «Hammamet, l'ultima intervista a Craxi», sul tema della mancata unità tra Psi e Pci.

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