Canto di rabbia e di speranza per la mia Calabria
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Canto di rabbia e di speranza per la mia Calabria

L’incanto estetico e il triste decadimento. Le grandi prospettive e il malaffare mafioso. Uno dei più noti scrittori italiani, Mimmo Cangemi, descrive la regione. Con un ritratto in agrodolce.

di Mimmo Gangemi

Reggio si allunga sulla tangente alla curva dove il continente si consegna al Mediterraneo. Lo Stretto si va allargando e il mare è ancora indeciso tra Ionio e Tirreno. Non è più Costa Viola. E Scilla, con le 6 teste latranti, se ne sta acquattata più a nord, nell’antro sotto un’alta rupe, lesta a ingoiare i marinai che si dibattono tra i vortici provocati da Cariddi.

Il Creatore qui s’è rimboccato le maniche e messo di buzzo buono, creando uno spettacolo senza uguali. Di fronte, al di là di una striscia di mare che si tinge dei colori del cielo, i rialzi collinari della Sicilia, a portata di voce, lì dove scompare il sole, che poi scende a spegnersi nelle acque. A sud, l’Etna s’arrampica con il suo manto bianco e sputa dalle viscere fuoco, che si deposita polvere nera, e rigurgiti di fumo che salgono su con la pretesa di nobilitarsi nuvole.

La città si diparte dal mare e di strada in strada scala una collina. La scala anche con un tapis roulant (doppia corsia come le autostrade, quelle vere e non l’A3) che fa tanto chic. Ha molteplici facce, Reggio. All’opulenza del centro, che mette i lustrini, tra luci sfavillanti e palazzi liberty primo Novecento, fanno da contrappeso le periferie degradate, dalle case incompiute, dalle vie dissestate. Qua e là, piccole favelas. E il tanfo della miseria, dignitosa perché la solidarietà familiare esiste ancora e sa essere il rifugio degli sconfitti, perché ci sono la dignità e la fierezza di chi sceglie di saziarsi con l’odore di cucinato che esala dalle altre case piuttosto che allungare la mano alla pietà.

Però Reggio è città metropolitana. Bocca piena nel dirlo. E poco importa che sia sempre più derelitta. Lo dicono anche i numeri della statistica, impietosi: la qualità della vita in competizione per la maglia nera, la regione al 36° posto, su 36, nella comprensione e capacità scolastica, appaiata al Costa Rica (indagine Ocse-Università di Pisa), gli ultimi gradini nelle classifiche di civiltà; e la ’ndrangheta, che pervade la società, la politica, le istituzioni, con i sedicenti uomini d’onore che non cedono d’appestare l’aria, tra nefandezze e collusioni in continuo affioro.

Nel mentre, prosegue ininterrotta la fuga delle intelligenze: la peggiore, quella che più addolora e impoverisce, giovani che vanno a costruire i destini altrove, senza più la valigia di cartone e lo spago girato intorno (ora il trolley con la pergamena di laurea stipata dentro) disattendendo così, loro malgrado, quell’"innamoriamoci di Reggio" ormai di antica memoria, già sprone a ricostruirsi migliori. Diventa sempre più difficile innamorarsi di questa Reggio, è immobile, stantia: il passeggio elegante, bella gente, le luci, le vetrine, i lussi, la spocchia consolatoria delle civiltà millenarie ("mentre su, al Nord, intaccavano graffiti nelle caverne", che è pure un errore di migliaia di anni. E il panem et circenses dei fasti di Roma. Neppure, anzi. Ché di panem, poca roba) ma tanto "qui si campa d’aria" canta Otello Profazio. Di circenses, a sazietà.

Bellezza e decadimento. Come se il Creatore si fosse accorto d’aver esagerato e avesse deciso di pareggiare i conti, dando e togliendo. La bellezza. Dare, ne ha data. Il lungomare è uno spettacolo su cui rifarsi gli occhi: la vista sullo Stretto, i palazzi, le piazze, le vestigia del passato, la via marina bassa e quella alta, separate da un’oasi lussureggiante, con piante esotiche, palmizi, iucche, gigantesche magnolie dalle radici ramificate, a ventaglio, che camminano tentacolari rasoterra e che mantengono sotto ombra perenne due grandi statue arlecchinate: me le dicono di rilevante pregio artistico, ne prendo atto, continua tuttavia a parermi che guastino la natura. Lo hanno definito "il più bel chilometro d’Italia". E lo sarà pure. A maggior ragione se lo si mette in bocca a Gabriele D’Annunzio. Solo che non è stato lui, ma Nando Martellini durante la cronaca di un giro ciclistico della provincia. Però, D’Annunzio? Bene allora, D’Annunzio.

Il decadimento. In abbondanza, da poterne esportare. E non poteva essere altrimenti, troppe armate Brancaleone, troppe corti dei miracoli sempre a scodinzolare ai potenti, ad acclamarli, a pretendere posti a cassetta, e li ottengono pure, troppe facce che si perpetuano, più bronzee dei Bronzi di Riace. Già, i Bronzi. Da soli valgono che si scenda quaggiù anche dall’altro mondo per vederli. Su essi Reggio è stata plebiscitaria a non accettare che viaggiassero. Magari converrebbe ripensarci: se esposti negli eventi eccezionali, come Olimpiadi e campionati del mondo di calcio, diventerebbero impareggiabili veicoli pubblicitari per una città con tutte le potenzialità del turismo; ma ahinoi, senza un’idonea ricettività, dovessero arrivare visitatori in massa, si rimarrebbe come ad aver colto in intimità la propria madre.

Bellezza e decadimento. Dolce e amaro. Sembra di più l’amaro. Sembra che debbano tingersi di verità i versi dell’eccelso poeta locale, Nicola Giunta, versi di cui riporto uno solo, e taccio i precedenti tre per amor di patria: ccà non crisci chi erba, erba, erba. Poi ragiono che io in questa terra ho scelto di rimanere, perché in me hanno prevalso valori qui intatti e altrove in via d’estinzione (l’accoglienza, il calore umano, la solidarietà, la famiglia, la gioia di vivere) e guardo al cielo, azzurro che pare l’abbiano riverniciato durante la notte, al mare giù che schiuma appena e già ci chiama, alla primavera in anticipo. E il nero sbiadisce, diventa grigio. E il grigio mi fa accorgere del risveglio culturale dopo decenni di torpore (oggi finalmente la Calabria riesce a raccontarsi), dell’attenzione alla storia e al patrimonio che essa ci ha lasciato, dei giovani delle scuole con pensieri più freschi e più liberi, con modelli diversi, dei coraggiosi che qui investono la vita e i sentimenti e scommettono sul futuro, di quelli che tornano a soccorrere, irrobustiti dai successi forestieri, di quanti hanno il coraggio di denunciare, delle iniziative di rinascita e d’impegno sociale, delle voci che si sollevano sempre più numerose contro la ’ndrangheta e contro il malaffare, dei movimenti collettivi di cittadini che si attivano sui fronti di criticità, dell’idea crescente di una Calabria cuneo europeo nel Mediterraneo, un’area di grandi problemi ma di grandissime prospettive.

Mi accorgo insomma della civiltà che spinge per farsi largo e che non mi si mostrava solo perché seppellita sotto la cronaca dolorosa e sotto il pregiudizio. Tuttavia, non rinnego l’amaro: dirselo aiuta a liberarsene.

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