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Putin e Trump, perché ora fingono di non andare d'accordo

L’ambiguità del potere costringe i due leader a litigare loro malgrado. Trump, alle prese con il "Russiagate" deve mostrarsi ostile all’avversario

Il presidente della Federazione Russa Vladimir Putin aveva fatto un inaspettato intervento nella campagna presidenziale americana lo scorso giugno, durante un dibattito organizzato dalla CNN a San Pietroburgo, definendo l’allora candidato repubblicano Donald Trump "un uomo brillante, eccellente e pieno di talento, che sostiene di voler far fare progressi sostanziali alle relazioni con la Russia. Come potremmo non vedere favorevolmente questa prospettiva?".

Le sue parole avevano destato un certo scandalo in America e un fastidio palpabile tra i democratici, ma non quanto la replica dello stesso Trump a quelle parole: "È sempre un grande onore ricevere complimenti da un uomo così rispettato nel suo paese e oltre. Ho sempre pensato che USA e Russia dovrebbero essere in grado di lavorare bene insieme per sconfiggere il terrorismo e portare la pace nel mondo. Per non parlare del commercio e di tutti gli altri benefici derivanti dal rispetto reciproco".

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Insomma, nell’estate del 2016 tra i due pareva scoppiato l’amore o quantomeno un’intesa che era proseguita durante l’elezione di novembre e poi fino al 20 gennaio 2017, giorno dell’insediamento di Donald J Trump alla Casa Bianca. Solo a quel punto è sembrato che si fosse trattato soltanto di un “flirt estivo”. Perché di lì a poco le cose sono cambiate radicalmente.

Il “Russiagate” e la politica interna
Poco dopo aver assunto il mandato, contro il 45esimo presidente americano sono piovute gravi accuse interne - dal partito democratico, dall’intelligence nazionale, fino al fuoco amico degli stessi repubblicani - di connivenza con il governo russo. I media lo hanno chiamato Russiagate, nome dietro il quale si celano veri o presunti incontri tra collaboratori di Trump e diplomatici russi, che sarebbero avvenuti sia durante il periodo della transizione sia dopo il suo insediamento alla Casa Bianca e che, secondo i democratici, sarebbero tali da giustificare l’impeachment, cioè la messa in stato di accusa del presidente.

Su queste insinuazioni si è speculato molto e subito si è mobilitata la stampa liberal con un fuoco di fila ogni giorno più pesante, tale per cui il caso è montato fino a raggiungere il Congresso, che ha avviato un’inchiesta bicamerale, così come l’FBI, che ha aperto un’investigazione ufficiale.

Per il Russiagate, Trump ha già perso alcuni stretti collaboratori come il generale Michael Flynn, da lui nominato Consigliere per la sicurezza nazionale, e Katie Walls, vicecapo di gabinetto. Mentre il ministro della Giustizia Jeff Sessions ha dovuto abbandonare le indagini in materia per il timore di un possibile conflitto d’interesse.

È proprio in seguito a questi sospetti destabilizzanti che la Casa Bianca ha corretto la rotta e tentato di demolire l’impalcatura accusatoria, smentendo la liason con il presidente russo attraverso una serie di azioni, di cui le bombe sulla Siria rappresentano il caso più evidente.

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Fumo negli occhi?
Con il passare dei giorni, quel gesto ardito è apparso sempre più come un tentativo di “distrazione” anziché un vero piano strategico per definire il futuro della regione. Come a dire che la questione attiene più alla politica interna che non alla politica estera americana.

Per allontanare le polemiche e ricompattare l’opinione pubblica, infatti, non c’è niente di meglio che un’azione forte, come può esserlo un intervento in Siria in risposta a un crimine di guerra quali sono i bombardamenti chimici. Su questo, persino gli uomini vicini a Barack Obama hanno applaudito al presidente.

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Così è avvenuta la trasformazione di Donald Trump. A chi suona strano che solo pochi mesi fa il presidente dicesse di considerare la Russia "come parte del gruppo di paesi con i quali dovremmo iniziare il dialogo subito" perché "la Russia può essere una forza positiva e un alleato contro il terrorismo" mentre ora accusa apertamente Mosca di difendere "un animale" come il presidente siriano Bashar Al Assad, deve considerare che la politica è l’arte della dissimulazione e che in questo campo l’infingimento è strumento indispensabile per ottenere lo scopo che ci si prefigge.

Negli Stati Uniti questo concetto è chiamato, in gergo politologico, “brinkmanship”, che letteralmente significa la capacità di “camminare su un cornicione senza cadere di sotto”. In breve, l’arte del rischio calcolato. Proprio quello che Trump ha applicato quando ha provocato Mosca lanciando missili Tomahawk contro il suo alleato siriano. Fumo negli occhi.

Impossibile dire se Donald Trump in cuor suo non abbia davvero cambiato opinione su Vladimir Putin, ma di certo è stato costretto a demonizzarlo in pubblico per tutelare la sua presidenza. Inoltre, sa che difficilmente un presidente americano può cambiare le linee strategiche generali di una nazione come gli Stati Uniti, da sempre antagonista della Russia.

Il punto di vista di Mosca
Dall’altra parte, il presidente russo interpreta a sua volta un ruolo, e precisamente quello dell’attendista, per stanare le vere leve della politica estera che intende esprimere l’Amministrazione Trump. Da scaltro conoscitore dei segreti delle relazioni internazionali e da abile giocatore di scacchi, Putin aspetta che sia l’avversario a esporsi per primo. E Trump in Siria lo ha appena fatto. Adesso, resta da capire quali saranno le sue prossime mosse.

Infine, è evidente che in questo momento il Cremlino è in posizione di vantaggio, non solo perché in Siria ha già raggiunto l’obiettivo che si era prefissato (piazzare basi militari nel Mar Mediterraneo), ma anche perché se davvero il Russiagate ha delle fondamenta, certamente Putin è il primo a saperlo e ad avere le prove.

Se esistono, i resoconti dettagliati degli incontri tra i suoi diplomatici e i collaboratori del presidente Trump sono la vera arma nucleare che Putin potrebbe decidere di sganciare contro la Casa Bianca, nel caso la situazione dei rapporti Usa-Russia dovesse ulteriormente peggiorare.

Nulla vieterebbe, infatti, a Vladimir Putin di trasmettere, magari in segno di “buona volontà”, le trascrizioni integrali o parziali dei report dei suoi diplomatici su quegli incontri, che metterebbero spalle al muro l’inquilino della Casa Bianca e offrirebbero prove a sostegno dell’impeachment.

Dunque, come dovrebbe ben sapere Donald Trump, ormai al suo terzo matrimonio, non esiste un divorzio che non sia doloroso. Se la simpatia tra i due svanisse veramente, è più probabile che a rimetterci sarebbe proprio il tycoon.

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Luciano Tirinnanzi