Il processo Stato-mafia? È una matrioska
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Il processo Stato-mafia? È una matrioska

Stato-mafia: gli unici episodi di rilievo sono avvenuti fuori dall’aula. Come la fuga di notizie sulle minacce al pm Di Matteo

di Massimo Bordin

Dopo 16 udienze, la prima si è tenuta alla fine di maggio, il processo sulla presunta trattativa tra Stato e mafia affronta la pausa di fine anno. Sarà la prima di una serie non breve, considerato che la durata del primo grado di giudizio si prevede pluriennale. Il bilancio che per ora si può trarre è molto parziale ma indicativo.

Intanto si può dire che il processo si è strutturato come una gigantesca matrioska, contenitore di altri processi che a loro volta ne contengono altri, alcuni terminati, alcuni mai iniziati e rimasti al livello embrionale di indagine, altri ancora giunti a prime, ma non definitive, sentenze. I protagonisti sono sempre gli stessi, imputati, pentiti e testimoni, sentiti più volte sui medesimi episodi. I loro verbali sono stati acquisiti ma non fa nulla, verranno risentiti e si è già iniziato. Dopo i primi cinque pentiti (da ultimo Giovanni Brusca, protopentito del processo visto che fu il primo a menzionare il famoso «papello») si è già capito che, oltre che una matrioska, questo processo è un caleidoscopio. Tessere diverse, con protagonisti diversi in un arco di tempo non breve, una quindicina d’anni, devono essere fatte combaciare per comporre una unica trama.

Non sarà semplice e lo si è cominciato a verificare. Dall’omicidio Lima alla cattura di Bernardo Provenzano succedono un sacco di cose, ci sono le stragi, tangentopoli, cambia lo scenario politico, cambia anche la mafia e paradossalmente, malgrado i tanti pentiti, è proprio quest’ultimo il cambiamento meno chiaro. La scansione per periodi che già i primi testimoni hanno proposto, in particolare Nino Giuffrè e Giovanni Brusca, finisce per contraddire alcuni capisaldi alla base dell’ipotesi accusatoria. Per esempio, Brusca ha ribadito per l’ennesima volta che non ci sono stati mandanti esterni della
strage di Capaci e che l’omicidio di Paolo Borsellino era programmato da tempo e non è dovuto al fatto che il giudice avesse scoperto la trama della «trattativa». Quanto ai rapporti tra mafia e politica, sono descritti sempre sulla base del sentito dire e a volte le date non tornano. Per esempio, si è letto nei titoli dei quotidiani che Brusca ha assicurato che il famoso «papello» era giunto nelle mani del ministro Nicola Mancino, ma il pentito in realtà racconta di averlo saputo da Totò Riina. Né il quadro si fa più nitido quando, per il periodo immediatamente precedente al 1994, la pubblica accusa ripropone le ipotesi sul rapporto fra i mafiosi e Forza Italia utilizzando il processo a Marcello Dell’Utri che è di nuovo di fronte alla Cassazione.

Ma se finora nulla di significativo è venuto dalle udienze, il processo da ultimo ha vissuto su episodi avvenuti al di fuori dell’aula, principalmente le minacce di Riina al pubblico ministero Nino Di Matteo. Anche in questo caso però non ci si accorge di un paradosso. Il regime di rigido isolamento a cui il capo mafia è sottoposto, il famoso 41 bis, ha la funzione d’impedire che il boss possa impartire direttive dal carcere ai mafiosi ancora operativi, ma in questo caso, per indicare il pm Di Matteo come bersaglio da colpire, Riina non si è dovuto servire di pizzini e loschi intermediari. I verbali con le sue indicazioni sono finiti ai telegiornali e ai quotidiani dai tavoli del Dap o dell’ufficio del pubblico ministero, che ne erano i legittimi e soli depositari. Su come sia potuto succedere non risulta che qualcuno abbia aperto un’inchiesta.

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