Luigi-Zanda
ANSA/ANGELO CARCONI
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Zanda il tesoriere del Pd che rivuole il finanziamento pubblico dei partiti

Ecco l'idea innovativa del nuovo tesoriere del Pd, un uomo in politica da decenni, che di nuovo ha poco o nulla

Il nuovo che avanza ha il volto di un vecchio, quello di Luigi Zanda. Classe 1942, l’uomo a cui Nicola Zingaretti ha affidato la cassa del Partito democratico è un’antica volpe della politica. Figlio dell’ex capo della polizia, Efisio Zanda Loy, che guidò il Viminale più di 40 anni fa, il nuovo tesoriere del Pd è sulla breccia da sempre, da quando fu preso sotto la custodia di Francesco Cossiga, all’epoca ministro dell’Interno. Dell’ex presidente della Repubblica fu portavoce e portaborse e con lui attraversò gli anni della prima Repubblica. Giunto poi nella seconda, Zanda all’inizio si ritagliò un ruolo da grand commis dello Stato, occupando un po’ di poltrone pubbliche, compresa quella dell’agenzia che doveva organizzare il Giubileo e per un certo tempo anche una nel consiglio di amministrazione della Rai. Poi svoltò, accettando di candidarsi al Senato per la Margherita.

La sua fu un’elezione più unica che rara, perché, presentatosi nel collegio di Marino-Colleferro-Frascati, arrivò primo con il 100 per cento dei voti. Gli altri partiti, infatti, non gli misero contro nessuno, così Zanda risultò l’unico in gara, e anche se andò a votare poco più del sei per cento degli aventi diritto, la più bassa partecipazione elettorale della storia repubblicana, l’ex pupillo di Cossiga fece il suo ingresso a Palazzo Madama. Era il 2003 e da 15 anni lo si può trovare lì, al Senato, dove, ai tempi di Matteo Renzi, ha ricoperto anche il ruolo di capogruppo del Pd. Ora Zingaretti, l’uomo che ha il compito di rottamare il Rottamatore, gli ha affidato l’incarico più delicato, ossia quello di custodire i soldi del partito. Anzi, a essere precisi, Zanda deve custodire i debiti, perché in cassa non c’è più niente se non i conti in rosso.

Così il nuovo tesoriere ha iniziato dal vecchio, cioè da una proposta da prima Repubblica: finanziare i partiti. Per risolvere i problemi del Pd, che è messo talmente male da aver lasciato a casa tutti i dipendenti, Zanda vorrebbe reintrodurre l’odiato finanziamento pubblico. Istituiti nel 1974 e abrogati da un referendum promosso dai radicali nel 1993, i fondi statali ai partiti sono un grande classico della politica. Gli italiani li detestano, perché li ritengono il simbolo del magna magna della Casta, ma gli onorevoli provano ogni volta a reintrodurli. Infatti, cancellati dal voto popolare 26 anni fa, rispuntarono poi con un nome diverso: non più finanziamento pubblico ai partiti, ma contributo per le spese elettorali. I radicali provarono altre due volte ad abrogarli e Mario Monti mise un argine alla spesa, ma alla fine fu Enrico Letta ad abolirli.

Ora, per salvare ciò che resta del partito, Zanda li vorrebbe riportare in auge. Non più fondi illimitati, come quando c’era il rimborso elettorale, ma 90 milioni, da dividersi tra tutti i partiti e da spalmarsi in cinque anni di legislatura. Da quel che si capisce dovrebbe essere una cifra fissa per ogni gruppo parlamentare, a prescindere dai voti, cioè 3/4 milioni l’anno. Briciole rispetto al passato, ma ossigeno per un partito che quanto a soldi è alla canna del gas. Quella di Zanda è però una missione impossibile, perché come è noto i Cinque stelle non ne vogliono sapere. Ma il nuovo tesoriere non ha intenzione di demordere, perché i fondi ai partiti, secondo lui, sono una questione di democrazia, per mettere tutti alla pari ed evitare che qualcuno prevalga sugli altri grazie ai soldi. Non so come verrà accolta dagli altri la proposta: a naso direi che non andrà lontano.

Però, se fossi nei panni del cassiere di Zingaretti, per essere credibile accompagnerei l’idea di ripristinare il finanziamento pubblico con la cancellazione delle fondazioni politiche. Già, perché tutti sanno che le fondazioni, non avendo l’obbligo di rendicontazione e men che meno quello della trasparenza, ormai sono diventate l’opaco strumento con cui si finanzia la politica. I soldi arrivano lì, in quelle società senza fine di lucro che dopo l’abolizione del contributo statale sono spuntate come funghi attorno a ogni partito.

È per una di queste che è finito nei guai Francesco Bonifazi, il predecessore di Zanda. Un costruttore, il romano Luca Parnasi, ha pagato alla fondazione dell’onorevole del Pd una consulenza che pare farlocca. Di qui l’accusa di finanziamento illecito e di fatture false. Perché è vero che le casse dei partiti sono vuote, ma attorno alla politica di soldi ce ne sono sempre tanti. 

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Ps. Aggiornamento dell'ultima ora. Zanda ha presentato in Parlamento una proposta di legge per aumentare gli stipendi dei parlòamentari di almeno 3 mila euro al mese (fino ad un massimo di 5)

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