Tullio De Mauro: "La scuola di Renzi è un passo nel vuoto"
Giuseppe Giglia/Ansa
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Tullio De Mauro: "La scuola di Renzi è un passo nel vuoto"

L'ultima intervista a Panorama del noto linguista ed ex-ministro della Pubblica istruzione, scomparso oggi a 84 anni

Linguista, ex ministro dell'Istruzione. Tullio De Mauro è morto oggi a Roma a 84 anni. Qui sotto l'ultima intervista rilasciata a Panorama.

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Si abusa delle parole? «Si abusa spesso, ma è impossibile sanzionare l’abuso di parola». E’ la parola “scuola” la nostra parola abusata? «L’abuso è largo, ampio». Matteo Renzi abusa della parola scuola come abusa dell’inglese? «Il primo abuso è la parola riforma. Ormai si usa per il più banale provvedimento». Le piace la “Buona scuola” del governo? «Mi sembra vaga. Quali risorse? Quali tempi? Ho l’impressione che sia un passo nel vuoto». Nel suo appartamento romano, anzi romanesco, direbbe lo storico che ha nobilitato sillabe e dialetti, Tullio De Mauro sorveglia gli innesti dell’idioma, i guasti della lingua che ha contribuito a elevare a scienza sfidando perfino le raccomandazioni del patriota Niccolò Tommaseo che considerava la linguistica la disciplina dei barbari. «Sono e rimango un linguista». Ministro per responsabilità? «In realtà da un bottone ho fatto un cappotto». De Mauro è il più integro dei ministri restituitoci da Trastevere, un ministero che ha flagellato carriere di storici, rettori, politici, il vero cimitero delle buone intenzioni italiane. E infatti il professore, restituito al diletto e al divagare, è un indulgente uomo di lettere di 82 anni vestito come un preside tutto sintassi e disciplina, un brevilineo che si controlla a tavola, tradito da orecchie alate che gli tolgono severità accademica.


Si possono assumere 148 mila precari in un anno? «No, è fuori dalla realtà per ragioni finanziarie. Non si sa dove possano essere recuperati nel bilancio del 2015».

Renzi riuscirà a riformare la scuola? «C’è sicuramente più comprensione rispetto al passato, ma si deve capire dove e come riformare. Antonio Ruberti, ex ministro della Pubblica Istruzione, usava la formula “suscitare attese”, annunciare cose che non si possono realizzare. Ho questa stessa impressione leggendo la “Buona Scuola”. Sono buoni annunci, ma vengono ignorati i meccanismi di realizzazione». Si possono assumere 148 mila precari in un anno? «No, è fuori dalla realtà per ragioni finanziarie. Non si sa dove possano essere recuperati nel bilancio del 2015». 

De Mauro si protegge dalla conversazione inutile resistendo al telefonino che si ostina a non acquistare e dice che così tesaurizzi tempo, «se lo avessi le sollecitazioni alla conversazione sarebbero tante», un capitale munifico di ore che rendiconta e spartisce, insomma esaurisce. Ed esaurimento è la parola che utilizza la scuola per indicare i supplenti che sono appunto a (rischio) esaurimento, da ex haurire: dissolti, consumati e dissipati. È giusto assumere in blocco i precari delle graduatorie ad esaurimento? «Anche questo aspetto mi sembra discutibile. Si dice: assumiamo tutti. In realtà, molti precari sono bravi, molti no. Hanno insegnato con mille difficoltà. E’ stato impossibile per loro aggiornarsi». Si possono lasciare fuori gli insegnanti che si sono abilitati negli ultimi anni e gli idonei dell’ultimo concorso? «Comprendo le loro proteste. Hanno ragione. Sono i sopravvissuti che vengono così lasciati ancora nell’indeterminatezza. Servivano concorsi con cadenza biennale, come del resto era previsto dalla legge». Basta un riconoscimento di 60 euro per motivare i nostri professori? «Da ministro feci avere un aumento di 100 euro. L’Ocse dice che c’è una relazione tra retribuzione economica e produttività. Il deprezzamento finanziario attrae solo santi missionari». La convince il sistema di valutazione degli insegnanti? «Mi lascia perplesso così come la parte che riguarda i presidi».

La biografia di De Mauro, che ha accettato di pubblicare per il Mulino, forno nazionale di idee, è un esempio di scrittura parca dal titolo gozzaniano Parole di giorni un po’ meno lontani, un incrocio di vocali e atenei, la vita piena e militante dello studioso di sinistra. La sinistra ha rallentato l’evoluzione della scuola? «La sinistra è stata riottosa di fronte allo sviluppo della scuola. Ha dominato l’idea paritaria, promossa dai sindacati, che i dipendenti pubblici siano tutti uguali. Anche uno studioso vicino al Pci come Concetto Marchesi non voleva l’innalzamento dell’obbligo scolastico».

 L’inglese della “Buona scuola” sarà sempre quello di Nando Mericoni, americano che parla come i sonetti del Belli? «Nel piano del governo si dice che bisogna studiare più lingue straniere, ma gli insegnanti alle elementari non ci sono. Manca la competenza. Si è provato a formare docenti d’inglese con 50 ore, purtroppo non è così che si impara a insegnare». L’inglese di Renzi è l’ultima polverosità della politica? «Utilizzato in quel modo è inutile, ma ci fa sentire più sicuri, ci veste di internazionalità a buon mercato. Non è altro che il latino usato dall’Azzeccagarbugli con Renzo. Chi sa parlare davvero l’inglese ha imbarazzo a parlarlo».

L’inglese di Renzi è l’ultima polverosità della politica? «Utilizzato in quel modo è inutile, ma ci fa sentire più sicuri, ci veste di internazionalità a buon mercato. Non è altro che il latino usato dall’Azzeccagarbugli con Renzo. Chi sa parlare davvero l’inglese ha imbarazzo a parlarlo».

Nella “Buona scuola”, che De Mauro ha letto, c’è il diluvio dell’inglese, l’alluvione dello slang manageriale: comfort zone, problem solving, design challenge, digital divide, gamification, nudging, digital makers, hackathon, la nuova antilingua che imbroglia ma non spiega. I neologismi illuminano o oscurano? «Credo che il nostro premier ricorra ai neologismi perché gli mancano le parole o non vuole usare le parole giuste». È la supplentite la sciagura della scuola? «La sciagura non sono i supplenti, ma i vecchi programmi, l’aggiornamento, i bassi stipendi, la confusione amministrativa».

E deve essere proprio il disordine l’avversario di De Mauro. La sua casa rispetta la grammatica dell’uomo di tempra solida, la rigidità morale dei filosofi campani, l’etica di Croce e l’empirismo di Vico. E c’è la stessa essenzialità nelle sovrane maniere, nell’arredamento delle sue stanze che divide con la moglie anch’essa studiosa della lingua, nella libreria che è una composizione immune da bizzarrie che invece di riempirsi si svuota di libri, «li dono. Gli ultimi che ho regalato sono testi dialettali».

Perché la scuola è irriformabile? «Non si è mai riuscita a riformare perché la classe politica, imprenditoriale ha sempre nutrito una diffidenza verso l’istruzione. Queste classi non amano la crescita del livello d’istruzione. Norvegia e Finlandia erano paesi poveri ma hanno puntato sull’istruzione a partire dalla bellezza degli edifici. Qui gli unici edifici di valore sono quelli di Reggio Emilia e Ferrara». Non sono le stesse parole di Renzi? «Giuseppe Bottai che era un razzista, ma un grande ministro, per i primi sei mesi preferì ispezionare le scuole senza nessun preavviso. Questo significa andare a vedere seriamente le scuole». Il primo giorno di scuola con i ministri è stato solo passerella? «No. E anche se fosse, meglio questa passerella che Porta a Porta». Le riforme si condividono? «In Francia è stata fatta una consultazione sulla scuola, ma vennero prima formulate le domande. È stato un metodo serio. La consultazione di Renzi non mi sembra seria». Detesta la velocità? «La politica deve essere veloce, ma la velocità è diversa dalla fretta. C’è la voglia di accelerare di affrettarsi per poter spendere eventualmente questi provvedimenti in una competizione elettorale». Ha smesso di insegnare? «Da quattro anni». Le manca? «Mi manca e tornerei. Negli Usa non c’è un limite di età. Tuttavia è giusto lasciare il passo». È un parruccone, un “professionista della tartina” come dice il premier? «Mi sembra aria fritta questa polemica». Si stanca a volte di leggere? «Di leggere no, di leggere scemenze sì. Per i buoni libri ho ancora tempo».


 

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Carmelo Caruso