Speranza (Pd): ecco perché si è dimesso da capogruppo
ANSA/ ANGELO CARCONI
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Speranza (Pd): ecco perché si è dimesso da capogruppo

Onore, lealtà, gesto dimostrativo contro le posizioni di Matteo Renzi sull'Italicum c'entrano poco: il deputato non avrebbe potuto fare altrimenti

C'entra veramente poco "l'onore" di cui parla qualcuno, o la "lealtà" di cui avrebbe dato "profonda dimostrazione" Roberto Speranza con le sue dimissioni da capogruppo dei deputati dem. Scelta già annunciata nei giorni scorsi e formalizzata ieri dopo l'assemblea Pd che ha visto 120 esponenti della minoranza andarsene al momento del voto e altri 190 dare il via libera alla linea dettata da Matteo Renzi sull'Italicum: avanti senza nessun cambiamento. La verità è che Speranza non avrebbe potuto fare altrimenti. E per varie ragioni.


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L'incompatibilità tra leader della minoranza e capogruppo

La più ovvia è che non essendo una figura di garanzia per le minoranze al pari del presidente del partito (anche quando a ricoprire il ruolo è chi, come Matteo Orfini, da giovane turco si è man mano trasformato in turbo renziano), il capogruppo non può mettersi contro le decisioni del segretario votate dalla stragrande maggioranza dei suoi colleghi e approvate da tutti gli organismi interni. Una situazione simile ha riguardato anche Nunzia De Girolamo che infatti è stata rimossa da presidente dei deputati di Angelino Alfano proprio in ragione della sua forte contrarietà alle scelte del suo capo. Senza contare che liberarsi dal ruolo potrà permettere al giovane bersaniano di decidere cosa fare da grande: se rimanere a capo di quella parte del partito moderatamente non renziana oppure, come altri, buttarsi a peso morto nelle braccia di Matteo.

L'ammissione di un fallimento

Inoltre, a spingere Speranza alle dimissioni, è l'ammissione – più o meno esplicita - di un fallimento personale. È stato infatti proprio lui, l'ex coordinatore della campagna di Bersani alle primarie del 2012, a tentare, più di chiunque altro, di ricucire lo strappo interno sulla legge elettorale. I suoi contatti con Palazzo Chigi sono stati frenetici. E anche nel suo campo non si è mai risparmiato. Quando Pier Luigi Bersani parlò a Repubblica di “democrazia plebiscitaria” accusando il premier di voler addirittura abolire la rappresentanza ecc ecc, Speranza prese le distanze criticando duramente l'ex segretario per quell'“intervista di pancia, o peggio, di fegato, che non aiuta né lui né noi di Area Riformista”. Era convinto che senza alzare i toni, cercando la via del dialogo, quelle modifiche tanto invocate sarebbero arrivate. Ma non a costo di spaccare il Pd. Quello no. Dopo Pasqua aveva lanciato anche una raccolta firme per chiedere a Renzi – che l'aveva già chiuso da tempo – di tenere aperto il confronto. Ci ha provato, ma ha fallito. E ieri ne ha preso definitivamente atto.

L'impossibilità di gestire una minoranza allo sbando

Terza buona ragione per fare un passo indietro l'impossibilità certificata di guidare una minoranza divisa e allo sbando, di trovare la sintesi tra posizioni, sensibilità, aspettative e condizioni anagrafiche molto diverse. Roberto Speranza ha 36 anni, guida un gruppo di quarantenni che hanno tutta l'intenzione di rimanere in politica il più a lungo possibile e non può permettersi di rappresentare anche gente come Bindi o lo stesso Bersani giunti praticamente all'ultimo giro e quindi molto meno preoccupati di giocarsi il tutto per tutto in una battaglia campale contro il detestato segretario fiorentino. Ma nemmeno sente di poter condividere un percorso con i vari Fassina, Civati, D'Attorre che fino all'altro ieri si battevano contro le preferenze e che oggi ne hanno fatto una questione di vita o di morte al punto da essere pronti a far cadere un governo di centro-sinistra, guidato da un partito del 40% da cui minacciano di andarsene un giorno sì e l'altro pure ma dove, per mero calcolo politico, sono costretti a rimanere fino a quando non avranno trovato un approdo che valga almeno il 3%.

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Claudia Daconto