Liliana Ferraro, una testimonianza contro la trattativa Stato-mafia
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Liliana Ferraro, una testimonianza contro la trattativa Stato-mafia

L’ex vice di Giovanni Falcone parla al processo di Caltanissetta sulla strage di via D’Amelio. E smonta la teoria su cui si basa il processo di Palermo

 

A Caltanissetta, al processo per la strage di via D'Amelio che si tiene in corte d’Assise, martedì 1° aprile ha deposto l'ex vicedirettore degli affari penali del ministero della Giustizia, Liliana Ferraro. Ripercorrendo la sua carriera e in particolare la sua esperienza al ministero accanto a Giovanni Falcone, Ferraro si è soffermata sull’incontro avuto con il capitano Giuseppe De Donno presso il ministero il 28 giugno 1992. E ha precisato che l'ufficiale del Ros, costernato per l'assassinio del giudice Falcone e desideroso di fare qualcosa per individuare e catturare i responsabili, le aveva parlato di Massimo Ciancimino e della possibilità, per suo tramite, di contattarne il padre, Vito, per convincerlo a collaborare. Ferraro ha aggiunto che De Donno le disse di avere più o meno già “agganciato" Vito Ciancimino e di volerne informare il ministro della Giustizia, Claudio Martelli.

 

Ferraro ieri in aula ha ricordato l’episodio, dichiarando: “Io risposi che avrei certamente informato Martelli, anche se non ritenevo che ci volesse il conforto del ministro. Ma precisai che era necessario avvertire la magistratura e che l'avrei fatto io, visto che avevamo la fortuna di avere un referente come Paolo Borsellino”. Nella circostanza il pm Borsellino, nell'apprendere dell’episodio e dei contatti tra l’ex ufficiale del Ros e Vito Ciancimino, non aveva fatto commenti, limitandosi a dire che se ne sarebbe occupato lui.

 

Ferraro, dichiara testualmente che Borsellino le rispose: “Va bene. Ci penso io”, aggiungendo, “non diede alcuna importanza alla notizia delle intenzioni del Ros di stabilire contatti con Ciancimino. Non ebbe una grande reazione. Non rimase sorpreso e non diede grande importanza al fatto. O lo sapeva o non riteneva che fosse rilevante. Quella tra il Ros e Vito Ciancimino era attività investigativa e null’altro. Solo attività investigativa”.

 Già in commissione Antimafia, il 16 febbraio 2011, la Ferraro aveva detto: “De Donno non mi parlò affatto di una trattativa, né ebbi percezione alcuna che si stesse riferendo a qualcosa di diverso dal comune tentativo di convincere un appartenente all’organizzazione (cioè Cosa nostra, ndr) a collaborare”.

E il 22 febbraio 2011, sempre davanti all’antimafia, Ferraro aveva  puntualizzato: “In quel periodo tutte le forze di polizia cercavano di entrare in contatto con persone detenute e non, che potessero offrire elementi, spunti investigativi da utilizzare, o con detenuti disponibili a dare una collaborazione concreta, chiamandosi fuori dall’organizzazione di appartenenza”.   

 Queste parole sono molto significative. Perché fugano ogni dubbio e spazzano via l’impianto accusatorio del processo che a Palermo ipotizza un’indebita trattativa tra uomini di Stato e boss mafiosi. Le dichiarazioni rese da Ferraro alla corte d’Assise di Caltanissetta sgretolano il teorema accusatorio di un patto tra uomini di Stato e boss.

Gli inquirenti siciliani hanno sempre ritenuto e sostenuto con forza e vigore che la «scoperta» di Borsellino di una “trattativa” in corso tra il Ros e Ciancimino fu uno dei moventi per l’accelerazione della sua morte, costata la vita anche agli uomini della sua scorta. Borsellino, secondo i pm siciliani, sarebbe stato ucciso perché sarebbe stato di ostacolo alla trattativa. Ma si sfalda anche questa tesi. Secondo Ferraro, infatti, Borsellino non si sarebbe affatto scandalizzato dei contatti tra il Ros e Vito Ciancimino, perché questi “agganci” rientravano quotidianamente nell’ordine di lavoro di ogni investigatore, cioè “pura attività investigativa”. Altro che trattativa!

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Anna Germoni