La Rai non è "teleMeloni": ecco il perché
Politica

La Rai non è "teleMeloni": ecco il perché

Da almeno sessant'anni l'editore della tv pubblica è la maggioranza di governo. Stupisce lo shock della sinistra che grida a un "sovranismo catodico" e che oggi fatica a liberarsi dall'idea di una Rai casa della cultura progressista

È quantomeno singolare il grido di dolore della sinistra politica e mediatica intorno alla televisione pubblica. “La Repubblica” è il giornale che più di ogni altro sta suonando la grancassa della “censura di regime”, con titoloni rumorosi: “Clima da caserma”, “teleMeloni”, “sovranismo catodico”. Si lascia intendere che il governo avrebbe occupato militarmente tutti gli avamposti della tv pubblica, lasciando agli altri le briciole.

Queste frettolose chiamate alle armi sono frutto esclusivo di una strategia politica completamente slegata dalla realtà. Sarebbe bello bersi la favola per cui, fino a qualche mese, fa la tv di Stato fosse un paradiso di pluralismo e indipendenza, mentre oggi sono arrivate le armate sovraniste e si marcia tutti al passo dell’oca. Sarebbe bello abboccare al racconto della tv pubblica obiettiva e corretta, che oggi improvvisamente si inginocchia alla corte di Giorgia. Ma le cose, come sappiamo, sono un po’ più complesse. E la realtà è che l’editore della televisione pubblica, da almeno sessant’anni, è la maggioranza di governo. E la sinistra non ha certo fatto eccezione rispetto a questo assioma: anzi, quando al governo c’erano i progressisti, gli spazi televisivi erano appannaggio esclusivo di personalità intellettuali legate a doppio filo a certi partiti. Non dico che questo sia giusto: dico però che è sempre stato così, e così sempre sarà, a meno che non si rifletta seriamente su un eventuale privatizzazione. Ipotesi non all’orizzonte.

E qui arriviamo ai due concetti fondamentali. Primo: la superiorità culturale della sinistra italiana (complementare al complesso di inferiorità della destra) sta proprio in questo: le pedine di partito che piazzano loro (Saviano, Damilano, etc), sono da considerare premi Nobel superpartes; gli altri invece sono fanatici pericolosi. Basti vedere cosa si sta leggendo in questi giorni su Filippo Facci, uno dal carattere spigoloso ma non certo il Bin Laden che sta dipingendo qualche collega interessato.

Punto numero due. In Italia i partiti di sinistra, negli ultimi 30 anni, non riuscendo ad arrivare al governo tramite legittimazione elettorale, considerano alcuni pezzi dello Stato come proprietà privata. Nella loro visione, è normale, in un corretta armonizzazione dei poteri, che la presidenza della Repubblica debba essere espressione del centrosinistra, come a bilanciare la pancia del Paese, che da anni pende a destra. Tra i pezzi dello Stato considerati “ipotecati per diritto divino” dalla sinistra, c’è effettivamente anche la Rai, che nella loro mente resta roba loro, per motivi di forza maggiore, e a prescindere dalle maggioranze di governo.

Dunque non è solo una questione di piccola bottega e di giochi di potere (ma c’è anche quello). L’emergenza democratica che si riversa nella polemica politica di questi giorni affonda le sue radici in questi pre-giudizi: e cioè che la Rai debba essere per forza di cose la casa della cultura progressista (essendo loro gli unici depositari della cultura tout court), e in seconda battuta considerando le reti pubbliche come un territorio intoccabile, pena l’indebolimento dello stato di diritto. La formula è più o meno questa: a voi il voto degli italiani, a noi alcuni centri nevralgici del potere, soprattutto mediatico e culturale. Una spartizione surrettizia che nessuno ha mai messo per iscritto: una prassi data per consolidata e di cui, finalmente, sarebbe il caso di liberarsi.

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Federico Novella