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Per rivoluzionare la Rai ci vorrebbe una figura come Marchionne

Per Giuliano Ferrara la tv di Stato è un po' come la Fiat: dal debito alla concorrenza, dai diritti della forza lavoro al ruolo degli azionisti

raiIl logo utilizzato dalla Rai dal 1954 al 1982ANSA/ WIKIPEDIA

Anche se più giovane all'anagrafe, e industrialmente meno ingombrante, la Rai è un po' come la Fiat al tempo di Marchionne. Lingua e cultura e intrattenimento non sono come le lamiere e i motori e non si combinano al montaggio, ma le regole della comunicazione e della sua produzione sono le stesse: debito, aiuti di Stato, concorrenza, mercati competitivi e aperti, scambio, produttività e diritti della forza lavoro, ruolo degli azionisti.

Però la Rai è dello Stato, governata a cavallo tra esecutivo e Parlamento, risponde ai partiti senza bisogno di spiccicare parola, anche fosse muto il complesso Rai conoscerebbe un solo linguaggio, che affettuosamente e impropriamentee ipocritamente definiamo di servizio pubblico, in realtà è la lingua della politica. Una rivoluzione industriale, di metodo, una metamorfosi alla Marchionne, appunto, non si può nemmeno immaginare.

A meno che. A meno che, così come si sono spogliati del finanziamento pubblico, per salvarsi dall'ondata anticasta,i partiti non decidano, cosa possibile con poche norme, di metterla almeno in parte nel settore privato. Resterebbe un canale finanziato dalla fiscalità, e assoggettato legittimamente a compiti estranei al mercato e alle sue mattane o alle sue dinamiche.

Resterebbero vincoli e convenzioni, certo, uno dei quali particolarmente ridicolo ormai, come l'esistenza di una commissione di vigilanza sulle trasmissioni radiotelevisive (pubbliche) che viene dall'epoca del monopolio e della censura politica esplicita, ma una Rai privata sarebbe l'equivalente di una Fiat divenuta internazionale, ricondotta a logiche non corporative nel rapporto tra capitalee lavoro, salvata sopra ogni altra cosa dalla subalternità, dall'imperfetta simbiosi con lo Stato, e da una marcata tendenza a pesare sui contribuenti che sono gli azionisti lontani e sempre delusi dell'ente pubblico che fa radioe tv.

Sarebbe una rivoluzione vera, la seconda dopo la rottura berlusconiana del monopolio e la creazione di un'emittente privata. Sarebbe un mutamento di pelle del Paese, nel segno di uno slancio verso la responsabilità e la decenza che non rinnega né la protezione di uno spazio pubblico né l'equilibrio tra Stato e soggetti privati nel mercato. Una volta era vero che privatizzare la Rai avrebbe voluto dire soffocarei suoi concorrenti, per tante ovvie ragioni legate al processo politico che aveva portato alla coesistenza, all'epoca di Rai e Fininvest, di due attori decisivi e quasi paritari del mercato della pubblicità, con l'aiuto stabilizzatore del canone.

Sono infine arrivate le tecnologie diffuse del digitale, del satellite del web, un rivolgimento materiale tangibile col telecomando e cliccabile con il mouse, un vino nuovo versato nei vecchi otri, nelle vecchie norme, nel vecchio sistema. Ogni volta che cambia un governo, però, e non importa se il passaggio a una maggioranza diversa si esprima in un rovesciamento di valori come quello evidente con le elezioni del 4 marzo scorso, la questione di una rivoluzione industriale e di sistema della Rai, mamma come si dice e garante di tante cose, non si pone nemmeno.

Ci immergiamo ogni volta nel gioco di teatro e di pettegolezzo che ci parla di come, con quali astuzie, con quali modelli operativi, con quali uominie donne, la Rai riuscirà a restare sé stessa; e il giro di valzer delle nomine, sempre e rigorosamente dichiarate estranee a logiche di partito dai nuovi governanti (stavolta si fa sul serio) è destinatoa riprodurre non dico una casta ma una couche professionale che è quella di sempre, con variazioni minime e non determinanti rispetto allo scopo di offrire un prodotto nuovo, un soggetto nuovo, un sistema nuovo. Alla fine del gioco si vede chi ha vinto e chi ha perso,e ci si accorge che non vince e non perde nessuno, e che il tappeto rosso delle promesse di regime si stenderà per la passerella delle star di sempre, con nuovi sponsor, un nuovo sistema di comunicazione e marketing, ma in un eterno ritorno dell'identico.

Non è strano che tutto minacci sempre di cambiare, magari in peggio, e che in Italia si possano chiuderei porti, controriformare i rapporti di lavoro, affamare i partiti, mutare di sbieco le alleanze di politica estera, ritornare su settant'anni di europeismo attivo, condannare lo Stato per collusione con la mafia, ma non si può nemmeno immaginare la riforma istituzionale di una vecchia consorteria di persone anche affidabili e capaci, ma che sono sempre le stesse, e di tecniche e programmi che hanno fatto con onore il loro tempo?

La Rai è uno strumento molto delicato, è lì da tanti anni, ci siamo abituati, ci sono Paesi in cui il servizio cosiddetto pubblico ha trovato il modo di equilibrarsi con il settore privato è riuscito a darsi un'identità moderna e riformatrice, con tutti i difetti dei sistemi di comando televisivo a tutte le latitudini, ovvio, ma qui da noi sulla Rai e sulle modalità per impadronirsene, magari senza troppo parere, casca sempre l'asino, e riti vecchissimi di rimpolpamento e redistribuzione del potere etereo si celebrano senza nemmeno porsi il problema di un segno di novità. 

Una vera battaglia industriale e di mercato in casa Fiat alla fine fu condotta, con risultati di un certo rilievo, ma che lo si possa fare nel colosso culturale e informativo della Rai è per principio escluso, come mostrano le notizie di questi giorni.

(Articolo pubblicato sul n° 32 di Panorama in edicola dal 26 luglio 2018 con il titolo "Ci vorrebbe un Marchionne alla Rai")

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Giuliano Ferrara