Ma dove vuole andare la minoranza dem?
ANSA/ FABIO FRUSTACI
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Ma dove vuole andare la minoranza dem?

Nonostante il dissenso sull'Italicum, la cosiddetta sinistra Pd non ha né i numeri in parlamento né il consenso nel Paese per vincere contro Renzi

Sognano un Vietnam in Senato.

Pensano di costringere il premier-segretario a scendere a patti con la minoranza sulla legge elettorale e sulla riforma scolastica.

Confidano (come i vecchi dorotei) che il tempo, prima della fine della legislatura, giochi a loro favore, erodendo progressivamente il consenso di cui tutt'ora gode (nel Paese, nel partito e nel Palazzo) Matteo Renzi.

Si rallegrano (come Pierluigi Bersani) del rilevante dato politico emerso ieri a Montecitorio, dove una cinquantina di deputati della minoranza hanno disatteso gli ordini di scuderia, votando no alla legge-simbolo del premier.

Si illudono (come Pippo Civati) che sia utile creare, con un'operazione di palazzo, un gruppo autonomo di sinistra in una delle due Camere, magari imbarcando qualche ex dissidente grillino, per far nascere un nuovo partito di massa a sinistra del Pd, magari con il soccorso rosso della Fiom di Maurizio Landini.

Eppure gli oltre 50 deputati Pd che non hanno votato l'Italicum dovrebbero sapere che per ora - piaccia o non piaccia - essi rappresentano solo se stessi, pezzi di classe dirigente piddina in disarmo ed emarginata dall'irresistibile avanzata dei fiorentini, nel migliore dei casi anziani militanti rimasti fedeli a un'idea nobile ma irrimediabilmente novecentesca del conflitto politico.

Perché quello che era il popolo della sinistra in Italia (che non ha mai storicamente rappresentato più di un terzo dell'elettorato) è altrove: un po' con Renzi, un po' con nessuno, un po' con Grillo, un po' alla finestra, a guardare come i vecchi pensionati, sempre più stancamente, i lavori in corso del rottamatore fiorentino. La diaspora - anche quando continua a stare per mancanza di alternative sotto le bandiere del Pd renziano - è ormai in uno stadio piuttosto avanzato. E quando un popolo si disperde, occorre per riunificarlo un nuovo fondatore di cui, nel panorama politico italiano, non c'è traccia.

Italicum: la scissione nel Pd si è già consumata


Diciamocela tutta. Non è così che può nascere un nuovo partito. I primi a saperlo - essendo tutti figli di solide scuole politiche - sono loro. È per questo che tracheggiano, prendono tempo, rimandano il redde rationem dell'inevitabile scissione. È per questo che sotto sotto si augurano, senza dirlo, che in futuro sia qualche extrapartitico comitato di cittadini, magari sostenuto da qualche esimio professore, a toglier loro le castagne dal fuoco, raccogliendo le firme necessarie (500 mila) per dare vita a un referendum abrogativo sull'Italicum, considerato da una parte della minoranza dem come l'arma fine di mondo, come la chiamava Peter Sellers ne Il dottor Stranamore

I Bersani, i Fassina, i D'Attorre, i Cuperlo, i D'Alema, le Rosy Bindi: tutte donne e uomini capaci, talvolta, di sofisticate analisi politiche, e  talvolta di notevoli capacità amministrative, ma troppo consunti (e lo sanno) per fondare un nuovo partito che raggiunga anche solo le percentuali che raggiungeva, in un'altra era geologica, il partito comunista di Fausto Bertinotti. Anche perché quegli elettori che votavano a sinistra, alla fine degli anni 90, stan diventando vecchi e le nuove leve, i loro figli, guardano più spesso a Beppe Grillo, che non a quel raffinato intellettuale di Gianni Cuperlo. I 5 Stelle - specie in alcune città storicamente di sinistra come Torino o come Genova - hanno svuotato il bacino dell'elettorato giovanile di sinistra e prima che ritornino a casa, come spera Civati, occorre qualcosa di più credibile di un gruppo parlamentare autonomo in Senato.

Infine. Per quante pacche sulle spalle possa ancora raccogliere quel galantuomo riformista di Bersani quando parla alle Festa dell'Unità, non ci vuole un Eric Hobsbawn per capire che il suo tempo sta per scadere. Basta ricordare quel che diceva Giancarlo Pajetta all'indomani della storica sconfitta del Fronte popolare socialcomunista nel 1948: Piazze piene, urne vuote. Le pacche sulle spalle non si traducono in voti. Le croci nel segreto dell'urna, magari di controvoglia, sì. È questa la vera forza di Matteo Renzi. La mancanza di alternative, anche alla sua sinistra.

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Paolo Papi