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ANSA/RICCARDO ANTIMIANI
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La dolce vita dei genitori di Renzi

Panorama ha letto per primo le carte dell'inchiesta sul giro di società della famiglia dell'ex premier

Secondo i fratelli Conticini l’inchiesta sui fondi per i bambini africani finiti sui loro conti personali non sarebbe altro che un complotto contro Matteo Renzi, cognato di uno dei tre indagati.

Lo rivelano gli atti che la Procura di Firenze ha depositato nelle scorse settimane e che Panorama ha visionato in esclusiva. Ma le carte dell’indagine condotta dal procuratore aggiunto Luca Turco e dalla pm Giuseppina Mione sulla presunta appropriazione indebita e il riciclaggio raccontano tutt’altra storia. Svelano tutti i maneggi con cui 6,6 milioni di dollari provenienti dalla Fondazione Ceil e Michael E. Pulitzer (che ne ha erogati 5,51), dall’Unicef (3,88) e da altre organizzazioni umanitarie (891mila) sono finiti nella disponibilità di Alessandro, Luca e Andrea Conticini. Quest’ultimo è accusato di aver riciclato 250 mila euro acquistando partecipazioni della Eventi6 srl, società di comunicazione dei Renzi già al centro di un fascicolo per false fatturazioni, e di altre due aziende collegate a imprenditori vicini alla famiglia dell’ex premier.

I soldi sarebbero stati drenati attraverso la Play therapy Africa (Pta) e la International development association fondate da Alessandro Conticini e dalla moglie Valérie Quéré. I soldi destinati ai bimbi africani avrebbero garantito alla coppia uno stile di vita milionario, con tanto di investimenti in giro per il mondo. Un bel salto per chi, come lavoratore autonomo della cooperazione internazionale, nel 2003 aveva percepito un reddito di 935 euro.

Le fiamme gialle hanno monitorato tutto, in entrata e – soprattutto – in uscita approfondendo i risk alert lanciati già dal 2012 dall’Ufficio informazione finanziaria di Bankitalia. Una delle segnalazioni più interessanti è su un bonifico del 25 settembre 2015. Conticini trasferisce 575 mila sterline su un conto dell’isola di Jersey, nel canale della Manica, intestato alla società Red Friar Private Equity ltd – Guernsey. La causale è «Investment Conticini Alessandro Edimburgh project». È la «sottoscrizione di un prestito obbligazionario», ricostruiscono gli investigatori, emesso dalla Red Friar per finanziare a sua volta la Hanover Leisure Fountainbridge (mutuataria) per la costruzione di 184 residence, con parcheggi e ristoranti, nel distretto finanziario di Edimburgo, in Scozia. Agli inquirenti non sfugge il particolare che il «prodotto finanziario» scelto da Conticini è «regolato dalla legislazione del Guernsey», ritenuto il «paradiso fiscale più efficiente del’Europa» e inserito nella black list della Controlled foreign companies (Cfc). Da dove arrivano le risorse del parente dei Renzi per quest’operazione? Dal suo conto corrente personale su cui, in quei giorni, sono confluiti i frutti del «disinvestimento di prodotti finanziari e relativi interessi», per 2,25 milioni di euro, «precedentemente acquistati» grazie alle «risorse finanziarie» delle «varie organizzazioni umanitarie», annotano ancora i militari. Coi soldi delle scuole e degli ospedali del Continente nero, il fratello del cognato di Matteo Renzi s’è inventato immobiliarista. Il conto presso la Cassa di risparmio di Rimini a Castenaso (Bologna), paese d’origine della famiglia Conticini, è il pozzo di San Patrizio a cui i fratelli attingono per «spese personali» e «familiari» oltre che per coprire le carte di credito. Tre milioni di euro sarebbero stati prelevati da quel conto «in assenza di idonea causale».

Gli investigatori ricostruiscono i movimenti dei soldi seguendo le strisciate nei pos in Etiopia, Mozambico, Emirati Arabi Uniti, Usa (Miami, San Francisco e Los Angeles), Nassau, Bahamas, Saint Lucia, Guyana, Trinidad e Tobago, Siviglia, Londra, Francoforte, Dublino, Amsterdam, Rennes e Malta solo per indicare le località più citate sugli estratti conto, e Italia ovviamente (Golfo Aranci, Madonna di Campiglio, Dimaro, Firenze, Bologna). Con la sua Cartasì, Conticini acquista a Città del Capo, in Sudafrica, diamanti per 7.400 euro, ma gli capita di utilizzarla anche solo per un caffè da 3 euro o per comprare, su iTunes, una canzone mp3 (costo: 3,46 euro). Consegna la card alle casse di McDonald’s, Ikea, Leroy Merlin, Decathlon e di centinaia di altri esercizi commerciali. A Castenaso paga con la carta un paio di calze da 7 euro; mentre a Rignano sull’Arno, il paese dei Renzi, salda un conto di 52 euro all’Ipercoop e di 24 euro in una storica macelleria. Sulla carta viene scalato anche l’abbonamento a Sky. Mese dopo mese, i saldi di Cartasì prosciugano quasi 200 mila euro. La smania di spendere di Conticini si manifesta ancor di più negli investimenti immobiliari. Per l’acquisto e la ristrutturazione della villa di Cascais, in Portogallo sborsa quasi due milioni di euro. È una reggia che, per la sola corrente elettrica, costa 3.300 euro al mese. Oltre 16mila euro è invece il totale per i lavori di manutenzione, mentre per mobili, oggetti e decorazioni sono stati necessari 33 mila euro. Quando non ci vivono, i coniugi Conticini la affittano per 600 euro a notte, come rivelò il quotidiano La Verità nell’agosto 2018. Nella vicina Lisbona, Conticini ha acquistato anche un palazzetto, in società con l’imprenditore Alessandro Radici, da cui sono stati ricavati 4 loft superlusso da vendere a un milione di euro l’uno.

Più economica (si fa per dire) è la gestione dell’altra villa in terra francese: oltre 50 mila euro per la piscina, 23 mila euro per la cucina, 11 mila euro di mobili, quasi 7 mila euro per la manutenzione del giardino, 4 mila euro per lavori di falegnameria e saldo parquet e 2.500 euro a una società che confeziona succhi di frutta biologici. In totale 253 mila euro.

Sui conti però ci sono ancora soldi sufficienti per un’auto (25 mila euro) e per due «rimborsi»: il primo di 1750 euro per il fratello Andrea Conticini e per Matilde Renzi, sorella di Matteo; il secondo per il «pagamento albergo vacanze di Natale». Agli atti ci sono pure i bonifici mensili alla moglie Valérie per «oltre 130mila euro», e per «operazioni acquisto titoli di Stato» (300 mila euro) e per un «investimento immobiliare» a Guimaec, nel Nord della Francia, paesino d’origine della consorte. Quel che residua viene dirottato da Conticini in Portogallo (2,2 milioni di euro) e in Svizzera (200 mila euro). Alla fine, presso la Cassa di risparmio di Rimini restano 41 mila euro su un conto, 10 mila dollari su un altro e 185 sterline sull’ultimo.

Conticini viaggia per il mondo non solo per piacere. Si muove tra i paradisi fiscali del Sud America e dell’Africa con dimestichezza, anche e soprattutto per lavoro. Nelle Seychelles, ad esempio, stabilisce la sede legale (con relativo conto corrente) della «International development association ltd», la creatura che eredita le attività della Pta, chiusa nel 2013, e che cattura altri fondi umanitari. Gli inquirenti scoprono, inoltre, che Conticini è amministratore pre di un’altra società che si chiama come la prima, «International Development association», solo che invece di essere una «Ltd» (una specie di Srl italiana) è una «Sa», ossia una «Società anonima». La sede è nella Repubblica democratica di San Tomè e Principe, un arcipelago di una ventina di isole frustate dal sole caldo dell’Equatore. I finanzieri sospettano che la costituzione delle due società omonime sia un trucco di Conticini per «proseguire a ricevere i contributi di beneficenza traendo in inganno» le organizzazioni umanitarie, e in particolare la fondazione Operation Usa, che continuano a inviare in buona fede i loro bonifici. Addirittura in un’informativa della Guardia di finanza si avanza il dubbio che uno dei giustificativi presentati dai coniugi sia in realtà un fotomontaggio, «frutto dell’unione, in un unico foglio, di più parti di differente provenienza».

L’Unicef, nonostante la presunta truffa ai propri danni, non ha ancora sporto denuncia, ma il dialogo tra l’ufficio della Nazioni unite di New York e la Procura di Firenze continua. Il 13 febbraio 2019 dall’Onu hanno scritto di voler «continuare a cooperare con il Governo dell’Italia» e che l’Ufficio affari legali «ha consultato l’Unicef riguardo alla richiesta del procuratore». Ma hanno anche chiesto «ulteriori informazioni rispetto al nesso tra i presunti reati commessi dai funzionari della società e i fondi dell’Unicef».

Il 27 febbraio il procuratore aggiunto Turco, attraverso la rappresentanza permanente dell’Italia presso le Nazioni unite ha inviato l’integrazione richiesta, ribadendo che dei 10 milioni di dollari erogati dalle varie associazioni benefiche alla Pta solo «la residua somma di 2,8 milioni» sarebbe stata «utilizzata anche per fornire a Unicef i servizi contrattualmente pattuiti, che sono risultati insoddisfacenti come rilevato dalla stessa Unicef nel rapporto consultivo dell’Ufficio verifiche ispettive interne del maggio 2014». Ecco dunque una delle armi segrete della Procura di Firenze che insieme alle indagini di Finanza e Bankitalia chiude il cerchio a livello investigativo: proprio un documento interno dell’Unicef che dà un giudizio sconfortante sull’operato dei coniugi Conticini, descritti come soggetti del tutto inaffidabili. E, infatti, dopo quel dossier l’Unicef interruppe ogni rapporto con loro.

Prima di allora quattordici sedi dell’organizzazione sparse in giro per il mondo avevano collaborato con la Pta, stipulando 33 contratti per un valore complessivo di 3.882.907,85 dollari. L’ufficio della Repubblica centrafricana aveva investito ben 788.390 dollari, il Senegal 632.863, l’Iraq 548.597.

Nel febbraio del 2012 Monika Jephcott, legale rappresentante della Play Therapy international, società azionista di minoranza della Pta, riceve un avviso di pagamento dall’Unicef con l’indicazione di un conto corrente a lei sconosciuto. Per questo avverte New York che non le risultava di dover ricever pagamenti temendo, come scritto in una memoria agli atti, una «frode (…) usando il nome di Pti».

Nel 2013 l’Ufficio delle verifiche ispettive interne (Oiai) del Senegal segnala alla propria sezione investigativa «un’accusa di servizio insoddisfacente e di contratti sovrapposti con un certo numero di uffici che coinvolgevano un venditore chiamato Pta».

La pratica passa all’Oiai di New York che scopre diverse stranezze. Per esempio che già nel 2010 qualcuno si era domandato come una società specializzata in terapia del gioco fornisse programmi «di protezione dell’infanzia». Per la Jephcott i coniugi «non possedevano le credenziali formali per la terapia del gioco». Quando a entrambi viene chiesto di dimostrare il contrario Conticini dice che avrebbe cercato i suoi attestati. Ma nel loro documento gli ispettori annotano: «A oggi né il signor Conticini né gli uffici dell’Unicef che hanno ingaggiato Pta hanno fornito all’Oiai una copia di alcun diploma o certificazione». Né gli 007 li trovano nei file personali dei due nei database dell’Unicef.

Non basta. «Il signor Conticini e la signora Quéré erano parte dello staff di Unicef quando hanno fondato Pta senza dichiarare il conflitto d’interesse al management dell’ufficio Paese Etiopia». Conticini avrebbe persino ingaggiato la consociata Pti per lavori pagati dall’Unicef.

Anche la Quéré, secondo l’Unicef, mentre era sotto contratto con l’organizzazione, collaborava con una ong ed era pagata con soldi del fondo per l’infanzia delle Nazioni unite.

L’ufficio non prese provvedimenti disciplinari ma si limitò a «una reprimenda scritta».

Ovviamente quando si dimise la Quéré andò a lavorare con la Pti su un progetto pagato dall’Unicef.

La Pta forniva servizi all’Unicef in quattro settori: psicoterapia, analisi di situazione, sistemi di protezione dell’infanzia e comunicazione per lo sviluppo. «In quattro uffici nazionali, a causa dei risultati insoddisfacenti, i contratti sono stati chiusi o il pagamento finale è stato trattenuto». Conticini interrogato dall’Oiai «ha ammesso che avrebbe dovuto declinare i contratti relativi all’analisi situazione e alla comunicazione per lo sviluppo e valutazione, dove non aveva competenza; tuttavia visto che gli uffici Paese lo avevano avvicinato per questi lavori, la Pta aveva prontamente accettato». L’Oiai cita otto contratti del valore di 1,2 milioni dollari in queste materie e cita giudizi insoddisfacenti per sei di questi.

Ma il vero colpo di grazia alla credibilità dei Conticini sembra averlo inferto l’avvocato Richard Walden, presidente di Operation Usa, la ong con sede a Beverly hills che veicolava alla Pta i fondi della fondazione Pulitzer. Il legale ha denunciato i Conticini, ha messo a disposizione mail e bilanci e in video conferenza con la Procura di Firenze ha fatto dichiarazioni importanti. Walden è stato sentito una prima volta il 12 giugno 2017 negli uffici Fbi e successivamente il 9 novembre 2017. Quel giorno in California a compulsarlo c’è il sostituto procuratore John Legend (come il musicista) e l’agente federale Daniel Quilt. Dall’altra parte dell’Oceano Turco e la pm Mione. Per il testimone non era previsto che i soldi dei Pulitzer finissero nelle tasche dei parenti di Renzi: «Nel 2016 in Etiopia» spiega Walden, «Alessandro Conticini mi disse “che (lui e la moglie, ndr) non si pagavano un salario o una commissione dal denaro dei Pulitzer, ma che lavoravano come consulenti per l’organizzazione internazionale del lavoro delle Nazioni unite (…) anche quando ricevevamo i budget per le donazioni non c’era mai una riga che indicasse un salario né per Alessandro Conticini né per Valérie Quéré». Ma sembra che non fosse così. A insospettire Walden fu anche l’apertura di un conto corrente a Capo Verde («Non ci avevamo mai lavorato, ma aveva una reputazione terribile e la risposta di Alessandro Conticini fu che le leggi bancarie erano più liberali»).

Lo stesso Walden a un manager della fondazione Pulitzer aveva riferito che in Etiopia non aveva visto «malta e mattoni», ovvero qualcosa di tangibile: «Quindi non ho avuto modo di sapere quanto è stato speso».

Agli agenti Fbi l’avvocato avrebbe detto che «Alessandro Conticini ha lavorato a stretto contatto con Matteo Renzi su varie donazioni benefiche e progetti». Ma davanti ai magistrati italiani Walden nega di essere mai entrato in contatto con l’ex premier o che Conticini gli abbia riferito di aver lavorato con lui. In compenso dichiara: «Alessandro Conticini mentre stavamo viaggiando in Etiopia ha menzionato il fatto che suo fratello era capo di gabinetto di Matteo Renzi».

Nel luglio 2016, quando il caso dell’inchiesta di Firenze finisce sui giornali italiani e la notizia arrivò alla fondazione Pulitzer, Alessandro Conticini scrive una mail alla sessantenne Christina Eisenbeis Pulitzer, la figlia di Michael Edgar e Cecille. Nel messaggio, oggi agli atti, si legge: «Negli ultimi tre giorni i miei fratelli e io siamo diventati vittime di un’indagine legale sullo sfondo di un attacco politico per destabilizzare il nostro primo ministro e il nostro governo in Italia. Mio fratello, la persona indagata più da vicino, è infatti il cognato del primo ministro ed è stato usato in diversi modi per destabilizzare la popolarità del primo ministro in vista del referendum italiano». Sino all’ultima accusa. La più clamorosa: «Vogliono dimostrare che una parte di quei fondi sono stati riciclati da mio fratello per sostenere le attività del primo ministro». In realtà a parte qualche spesuccia a Rignano, sembra che, come abbiamo visto, il progetto dei Conticini brothers fosse ben studiato e che grazie ai soldi per i bambini africani una modesta famiglia di Castenaso sia diventata milionaria.

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Giacomo Amadori

(Genova, 1970). Ex inviato di Panorama e di Libero. Cerca di studiare i potenti da vicino, senza essere riconosciuto, perciò non ama apparire, neppure in questa foto. Coordina la sezione investigativa dellaVerità. Nel team, i cronisti Fabio Amendolara, Antonio Amorosi e Alessia Pedrielli, l'esperto informaticoGianluca Preite, il fotoreporter Niccolò Celesti. Ha vinto i premi giornalistici Città di Milano, Saint Vincent,Guido Vergani cronista dell'anno e Livatino-Saetta.

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Simone Di Meo