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ANSA/ANGELO CARCONI
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Il Pd sull'orlo di una crisi di nervi

I ballottaggi rischiano di far deflagrare il partito, guidato da un leader sempre meno tollerato e con una minoranza incapace di esprimere un'alternativa

La crisi scatenata nel Partito Democratico dai risultati del primo turno delle elezioni amministrative, rischia di rappresentare solo l'antipasto di una portata ben più amara e indigesta.

Nella Capitale la sfida tra Roberto Giachetti e Virginia Raggi potrebbe addirittura finire con un umiliante 30 a 70 per la candidata grillina.

A Milano, l'eventuale vittoria di Stefano Parisi risulterebbe ancora meno accettabile dato il giudizio più che positivo sull'esperienza amministrativa del centrosinistra con Giuliano Pisapia.

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A Napoli, persa al primo turno, è stata addirittura aperta un'inchiesta su due candidate del Pd al consiglio comunale accusate di associazione per delinquere finalizzate alla corruzione elettorale.


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Clima incandescente
Nonostante ciò il premier Matteo Renzi ha già messo le mani avanti e annunciato che in caso di sconfitta a Roma e Napoli non si dimetterà. Non ha finora ritenuto necessario assumersi la benché minima responsabilità. Si è aggrappato ai dati dell'Istituto Cattaneo che attribuiscono al Movimento 5 Stelle l'emorragia maggiore di voti e ha lanciato minacce e anatemi da una parte all'altra.

Ha detto che se a Roma vince la Raggi, le Olimpiadi del 2024 salterebbero (è utile ricordare che non sono le elezioni romane a stabilire se la città diventerà la sede ospitante dei Giochi bensì il Cio che valuterà e confronterà i requisiti di tutte le città candidate). Soprattutto ha annunciato che dopo i ballottaggi (i cui risultati per lui non cambiano niente perché l'unica vera partita in grado di cambiare il suo destino è quella del referendum costituzionale d'ottobre) entrerà nel Pd con il lanciafiamme.

Un'immagine che ha scatenato indignazione e ironie nella base dem. Per una grande parte di essa, infatti, il lanciafiamme il premier dovrebbe utilizzarlo innanzitutto verso se stesso e verso i cosiddetti renziani locali, considerati i principali responsabili della débacle al quale il partito sembra destinato ad andare incontro.

Il problema "Renzi"
Renzi continua infatti a parlare di “liti tra correnti” facendo finta di non accorgersi che una delle correnti più litigiose del Pd è proprio la sua. Fingendo di non essere consapevole di quanto male abbiano lavorato in questi mesi i suoi sui territori. Al punto che se domenica scorsa tanti militanti Pd hanno deciso di mettere la croce sul nome di un candidato diverso da quello espresso dal proprio partito, è per l'antipatia, l'insofferenza, il malessere, l'indignazione che ormai da molto tempo nutrono verso di lui.

Insomma, basta farsi un giro su Facebook per trovare conferma al clima di sfiducia che ormai si è instaurato intorno alla figura del segretario ritenuto incapace di interpretare il sentimento del suo popolo e di tenerlo unito. Addirittura i candidati sindaco Fassino, Merola, lo stesso Giachetti gli hanno fatto capire che sarebbe meglio se nei prossimi giorni si tenesse alla larga dalle loro città.

Referendum e politiche
Un clima che potrebbe migliorare solo qualora il 19 giugno Beppe Sala e Roberto Giachetti dovessero riuscire nel miracolo di battere i loro avversari. Se così non fosse, Matteo Renzi dovrà mettersi in testa una buona volta che quei risultati peseranno eccome sulla campagna per il referendum di ottobre e quindi sul suo destino personale e politico.

Come peseranno quando, probabilmente già il prossimo anno, si andrà a votare per le politiche con un sistema elettorale, l'Italicum, che egli ad oggi insiste nel non voler cambiare ma che rischia di rappresentare per il Pd la pietra tombale sulle sue ambizioni di governo. Ma oltre al destino del governo e di Renzi, oltre la personalizzazione ossessiva di ogni vicenda politica che lo riguardi direttamente o meno, c'è quello di un partito strapazzato e nel pieno di una crisi d'identità.

Il problema "minoranza dem"
Ad oggi il Pd si ritrova ad avere un leader forte ma sempre più inviso e una minoranza incapace di darsi un orizzonte più ampio della singola bega quotidiana, priva di un programma che non ricalchi quelli già bocciati dagli italiani negli anni scorsi e soprattutto sprovvista di una figura carismatica in grado di competere con Renzi nella sfida per la leadership.

Dal giorno dell'elezione alla segreteria, l'8 dicembre del 2012, nonostante i due milioni di voti che ne hanno pienamente legittimato l'ascesa, Matteo Renzi è stato sempre considerato un intruso, un abusivo, un clandestino da espellere. Questo è il motivo per cui oggi né Bersani, né D'Alema, né Speranza dispongono dei mezzi per “salvare” la loro Ditta.

Nessun vincitore
L'ex segretario Bersani e le sue metafore (“il Pd ha una mucca in mezzo al corridoio”, “bisogna tenere le canalette aperte) sono tollerati dalla base dem meno dello stesso Renzi e dei suoi toni e modi muscolari, spacconi e arroganti. Pertanto, se dell'impresa di ricostruire il centrosinistra sarà ancora lui a pretendere di farsene carico, ingaggiando i vari e soliti Fassina, D'Attorre ecc, è molto probabile che quell'impresa sarà destinata a fallire.

Ma se non potrà essere lui in prima persona il protagonista del rilancio del centrosinistra, non c'è dubbio che vorrà esserlo della resa dei conti interna che verrà celebrata alla lettura dei risultati del ballottaggio. Tutta la minoranza aspetta Renzi al varco. Per rinfacciargli le aperture a Verdini e le chiusure a sinistra. Il congresso è già iniziato. E però ad oggi sembra che tutti gli attori in campo siano destinati a perderlo.

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Maria Franco