La mia Diaz, dieci anni dopo
ANSA / LUCA ZENNARO
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La mia Diaz, dieci anni dopo

Dopo la sentenza della Cassazione: solo chi c'era può comprendere davvero quello che avvenne in quelle giornate di follia

La Diaz di Genova sta ai giornalisti italiani come Woodstock sta agli americani sulla sessantina: più passano gli anni più aumentano quelli che giurano di esserci stati.

Comprensibile. Ma falso, almeno nel primo caso. La sera del 21 luglio 2001, davanti a quell’edificio disgraziato piazzato nel mezzo di un quartiere-bene, eravamo veramente in pochi. La maggior parte di noi se n’era già andata e le strade di Albaro apparivano ancora più silenziosa e sgombre del solito. E la ragione è molto semplice: in quella scuola non c’erano facinorosi organizzati, non c’erano estremisti, non c’erano black bloc. O se c’erano, come hanno ricostruito le sentenze, erano lì per caso. Niente «teoria del covo», insomma. Niente di succoso per i cronisti, niente che giustificasse un blitz delle forze dell’ordine.

Anche io, come quasi tutti i colleghi, me ne sono tornato a casa una mezz’ora prima dell’irruzione. Non potevo sapere che un chilometro più in là, in questura, qualcuno aveva già pianificato tutto. Non potevo immaginare che il seguito della vicenda l’avrei seguito saltando per buona parte della notte tra tv locali, siti web e radio antagoniste. Senza capirci molto, per la verità, visto che le breaking news, a seconda della fonte, oscillavano schizofreniche tra la descrizione di un banale controllo di polizia al racconto di una macelleria con tanto di morti.

I morti, per fortuna, non ci sono stati. La macelleria sì, a quanto pare.

Non ho molti altri ricordi della «mia» Diaz se non quello di un ragionamento partorito a posteriori, quella notte: dal punto di vista narrativo, non certo da quello morale, si trattò del finale perfetto e necessario di una tre giorni dove scontri e violenza avevano rubato la scena a qualsiasi altra notizia.

Basta un’altra istantanea a confermarlo: primo giorno del vertice, sala ovattata, conferenza stampa di saluto del primo ministro canadese che resta a parlare solo davanti a un mucchio di sedie vuote perché nel frattempo all’altro capo della città erano scoppiati i disordini.

Ecco, i disordini. Mai viste scene simili prima di Genova, quando la maggior parte dei (pochi) cortei li avevo vissuti da manifestante. Mai viste scene simili dopo Genova, quando la maggior parte dei (pochi) cortei li vivrò da giornalista. Ma in piazza c’è una regola, sempre la stessa, almeno da quando siamo in democrazia: le botte si danno e si prendono, devi metterlo in conto. Che tu abbia una divisa o no, devi farlo. Ma poi dovresti piantarla lì.

Invece ieri, dopo 11 anni (da qualche parte ho persino letto «processo insolitamente rapido» ma mi astengo dal commentare), la Cassazione ha deciso l’azzeramento quasi totale dei vertici del nostro ordine pubblico, colpevoli proprio di non averla piantata lì.

Giusto? Sbagliato? Non è compito nostro stabilirlo. C’è una sentenza che parla, che farà parlare e che forse farà anche scuola. Posso aggiungere solo una cosa, naturalmente a titolo personale come lo sono tutte le valutazioni qui espresse. Ho avuto la fortuna di conoscere alcuni dei funzionari condannati: sono persone serie, competenti, tra i migliori poliziotti che abbiamo. I risultati conseguiti nella lotta alla criminalità organizzata, a quella comune e al terrorismo parlano chiaro.

Ma proprio per questo motivo devono scontare la loro pena, ora che siamo arrivati a sentenza definitiva. Se chi è più specchiato degli altri non dà l’esempio ai suoi uomini, difficilmente torneremo a fidarci come prima di chi deve garantire la nostra sicurezza.

Personalmente vorrei solo che tutti, vittime e colpevoli, ma soprattutto le prime, ritrovassero un po’ di serenità. La stessa che si respirava ad Albaro, quella sera, insieme all’aria pulita che ti entrava nelle narici ancora rosse di lacrimogeni. E che in molti non hanno riassaporato per 11 anni.

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