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Un anno del Governo Conte, la storia

Dalla collaborazione iniziale alle liti quotidiane. Storia dei 12 mesi del Governo Lega-M5S

«E' una persona seria, onesta, leale e coerente» tubava Matteo Salvini. «Ci fidiamo ciecamente l’uno dell’altro» amoreggiava Luigi Di Maio. «Lo sento al telefono più volte della mia mamma» ammetteva il capitano leghista. «Ci parliamo dieci volte al giorno e non ho motivo di dubitare di lui» ratificava il leader dei Cinque stelle. Smack, smack, smack. Salvini e Di Maio. Alzi la mano chi aveva mai visto un tale idillio politico. Adesso, ahiloro, è finito tutto a catafascio. «Salvini è prepotente e arrogante come Renzi» assalta Luigi. «Invece che insultare i suoi alleati, pensi ai morti sul lavoro» rintuzza Matteo. Erano Coppi e Bartali, che si passavano la borraccia al Tour de France. Sono diventati i duellanti all’alba nella brughiera, in dissidio pure sull’arma da scegliere: sciabola o moschetto?

Al compleanno dei gialloverdi non ci sono torte, tramezzini e festoni. Ma stoviglie che volano e cocci da rincollare. Forse. 1° giugno 2018: proprio un anno fa, dopo lunga e travagliata gestazione, nasceva il governo guidato da Giuseppe Conte. Un lungo sospiro di sollievo corre lungo la Penisola: da Predoi a Portopalo di Capo Passero. Magno gaudio! Habemus premier: Giuseppe Conte. E anche a Volturara Appula, borgo medievale molisano che diede i natali al professore, il sindaco Leonardo Russo gioisce: «È un futuro roseo per questo Paese. L’Italia è in buone mani».

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Trecentosessantacinque giorni più tardi, il giubilo è sepolto. Dopo i primi mesi di sbaciucchiamenti, s’è passati a un estenuante scontro al calor bianco. Non c’è nulla su cui leghisti e grillini trovino pace e concordia. Così Giancarlo Giorgetti, eminenza grigia del Carroccio e sottosegretario alla presidenza del Consiglio, suona il tetro de profundis: «Il Movimento Cinque stelle ci fa opposizione e Conte non è più super partes. Ormai il governo è paralizzato». Ogni giorno, una baruffa. Fino all’ultimo affronto preelettorale. Con Matteo che sgancia: «Anche l’abuso d’ufficio blocca l’Italia». E Luigi che oltraggia: «Più lavoro e meno stronzate».

Schermaglia esemplificativa. Perché, a onor del vero, la dinamica preelettorale è stata lampante: botta grillina e risposta leghista. Già: il futuro dei pentastellati sembra il passato. Vaffa, provocazioni e manette: alla ricerca del consenso perduto. Adesso però il dado europeo è tratto. Riposte le schede nelle urne, qualcosa in più si capirà: siamo al capolinea?

Torniamo però al 1° giugno 2018. Il «governo ircocervo», copyright a Silvio Berlusconi, vede la luce. Certo, le basi elettorali sono opposte. La Lega rappresenta il Nord, produttivo e antisbarchi. Il Movimento sfonda al Sud, declinante e statalista. O la va o la spacca. Matteo il milanese diventa ministro dell’Interno. È il pulpito da cui combatterà la battaglia su porti chiusi e sicurezza. Luigi il campano ottiene, invece, le Attività produttive. Scranno da cui distribuirà il reddito di cittadinanza: benedetto da giovani e disoccupati meridionali; mai digerito da imprenditori e artigiani nordisti. Il programma è sintetizzato nell’inusuale contratto di governo: 30 punti e 57 pagine. «Come fanno in Germania» gongola Luigi.

Transeat. Meglio la sostanza della forma, no? Per il resto: agricoltura, autonomie, sport, famiglia e istruzione alla Lega. Trasporti, salute, giustizia, difesa, mezzogiorno e ambiente ai Cinque stelle. Qualche tecnico. E un premier di garanzia: Conte, subito ridefinitosi «avvocato del popolo». Un ruolo di terzietà che nei mesi, accusa il Carroccio, s’è sbiadito. Il gialloverde è diventato flavo acceso. Rivelando così la genesi della nomina di Conte: scelto da Di Maio, su suggerimento del fido Alfonso Bonafede, il futuro guardiasigilli. Che del professore fu devoto assistente di diritto privato all’Università di Firenze.

I primi mesi filano abbastanza lisci. Salvini parte lancia in resta: contro Ong e barconi. La prova di forza arriva qualche giorno dopo l’insediamento al Viminale: il 9 giugno 2018. Il neoministro rifiuta l’approdo sulle coste italiane dell’Acquarius, che trasporta 632 migranti. L’Europa attacca. Il presidente francese, Emmanuel Macron, sfida: «Salvini è un irresponsabile». Il capitano leghista non cede. La nave fa rotta su Valencia: solo allora gli immigrati toccano terra.

Dispute furibonde. Ma per il leader del Carroccio è la madre delle battaglie. Accompagnata da una nutrita e simbolica crescita nei sondaggi. Per la prima volta, gli istituti confermano: la Lega sfiora il 30 per cento. E, soprattutto, sorpassa i Cinque stelle. La linea dura sugli sbarchi diventa granitica. E non sarà scalfita nemmeno dall’inchiesta della Procura di Palermo sullo sbarco della nave Diciotti. Salvini è indagato per sequestro di persona e abuso d’ufficio: mina giudiziaria poi disinnescata dal parlamento. Il 29 novembre 2018 s’arriva così al dunque: viene approvato l’identitario decreto sicurezza. Nel mentre, sono annunciate flat tax per le partite Iva e Quota 100 per i pensionati. Il vento del consenso continua a gonfiare le vele del capitano leghista.

Luigi è il dioscuro in penombra. Costretto a ricorrere. Sotto il solleone agostano fa approvare il decreto Dignità: «Il primo non scritto dalle lobby. Oggi vincono i cittadini» tripudia. La legge prevede: meno precarietà e più vincoli per le aziende. Che, difatti, non perdonano. Confindustria si solleva. Le imprese lombarde e venete lamentano antistoriche ingessature. Intanto, partono le grandi manovre per il reddito di cittadinanza, che vedrà definitivo varo il 27 marzo 2019. Due, ben assestati, cazzotti al mondo leghista. Il governatore del Veneto, Luca Zaia, è latore del malcontento del Nordest. «Tiremm innanz», diceva però il patriota milanese Amatore Sciesa. Andiamo avanti, mutua Matteo.

Arrivano le elezioni regionali: in Abruzzo, Sardegna e Basilicata. Risultato: un incessante e univoco travaso di voti. Dal M5s alla Lega. A cui si aggiunge la distanza ideologica tra gli alleati. I dissidi macinano. E deflagrano sulla Tav. Con il ministro dei Trasporti, Danilo Toninelli, fiero oppositore del corridoio europeo. E i leghisti, in coro, a rintuzzare: va fatta. As-so-lu-ta-men-te. Indigeribile per un Movimento che sull’avversione alla Torino-Lione ha costruito cospicue fortune elettorali. La partita però è più ampia. Tutte le grandi opere in cantiere vanno riviste, riprogettate, cassate: ogni metro cubo di cemento è miscelato a mazzette e corruzione. In guardia, felloni.

A dar manforte all’esangue Luigi, giunge dal Sudamerica Alessandro Di Battista, barricadero leader in sonno del Movimento. «La Lega torni da Berlusconi e non rompa i coglioni» esordisce in rima. Poi prende per un braccio l’amico Luigi e lo porta a Parigi. Per incontrare nientepocodimeno che Christophe Chalencon, guida dei Gilet gialli. Ovvero: un manipolo di gentlemen che da settimane mette a ferro e a fuoco la Francia, sognando «la guerra civile».

Acqua passata. Adesso, invece, è Luigi a dare del violento a Matteo: «La Lega la smetta con fucili e carri armati» rimprovera. Uno dei tanti affondi, nelle ultime settimane. Salvini va al Family day? Di Maio non si esime: «A Verona c’è una destra di sfigati». Lo spread sale? «Basta sparate irresponsabili!». La maxinchiesta per corruzione sfiora il presidente lombardo, il leghista Attilio Fontana? «È la nuova Tangentopoli».

Meglio però non scomporsi. Le cronache politiche italiane sono zeppe di furiose liti. Seguite da repentine riappacificazioni. Dopo la caduta del primo governo Berlusconi, seguirono anni di terrificanti insulti con l’allora segretario del Carroccio: Umberto Bossi. Il ruspante Senatùr mollò gli ormeggi, dando fondo alla fantasia padana. Berlusconi, rinominato «Berluskàz» o «Berluskaiser», fu amorevolmente definito: «il mafioso di Arcore», «il grande fascista», «un suino», «Wanna Marchi», «bollito», «povero pirla», «ubriaco da bar», «piduista», «molto peggio di Pinochet». Il Cavaliere non porse l’altra guancia. Bossi? «Uomo dalla mentalità dissociata», «ladro di voti», «pataccaro», «cadavere politico», «sfasciacarrozze». Fu così che il leader di Forza Italia, al culmine dello scontro, promise: «Non mi siederò mai più al suo stesso tavolo!». E difatti, qualche tempo dopo, i due ripresero a filare insieme. Cosa volete che sia allora la pioggia di insolenze che ha infradiciato la primavera gialloverde? Buffetti. Pizzicotti. Burlette. Quindi? «Never say never» insegna James Bond. Già: mai dire mai…
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Antonio Rossitto