La lezione della vittoria di Giovanni Toti in Liguria
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La lezione della vittoria di Giovanni Toti in Liguria

Una su tutte: il fallimento del Partito della Nazione di Matteo Renzi a cui il popolo del centrosinistra ha girato chiaramente le spalle

C’era una volta il Partito della Nazione. Ve lo ricordate? Fino a due giorni fa sembrava fosse il futuro del paese. In cosa consisteva, il grande progetto di Renzi? Trasformare il PD, il vecchio, solido partito della sinistra italiana, erede del PCI, del PDS, dei DS, in una “cosa” centrista, che piace alla gente che piace, moderna e liquida quanto basta per non avere nessuna remora ideologica. Insomma, una specie di Democrazia Cristiana 2.0, votabile più o meno da tutti coloro che sono allergici alle stravaganze grilline e alla deriva antieuropea della Lega.

Per ottenere questo risultato Renzi aveva in programma che il PD perdesse una fetta della sinistra, convinto di prendersi in cambio tutto quel centro alla perenne caccia di un padrone al quale accodarsi, e – per rassegnazione – i moderati orfani di Berlusconi (dato per morto per l’ennesima volta). Insomma, proprio come la DC in tutto, tranne nello stile: sostanziale immobilismo nei contenuti, consenso trasversale non entusiasta ma privo di alternative, uso dei voti liberali per fare una politica sostanzialmente socialdemocratica. Provate a immaginare i fluviali discorsi Aldo Moro, o i “ragionamendi” di Ciriaco de Mita, tradotti in un paio di tweet, e avrete Matteo Renzi.

C’era un laboratorio ideale, per tutto questo, la Liguria. Nonostante Genova sia la patria di Beppe Grillo, la Liguria è una regione storicamente rossa, nella quale nessuno metteva in discussione la vittoria del PD.

Con una tipica operazione renziana, la giovane pupilla del governatore uscente, Raffaella Paita, graziosa d’aspetto, grintosa, determinata, donna, abbastanza spregiudicata da venir sospettata di accordi sotterranei con esponenti del centro-destra è stata imposta (attraverso contestatissime primarie) contro un vecchio e prestigioso sindacalista come Sergio Cofferati, già leader di quella CGIL dalla quale Renzi fa di tutto per prendere le distanze. Cofferati, indignato dai metodi usati contro di lui, ha sbattuto la porta e se n’è andato, organizzando una candidatura di sinistra “vera”, quella di un ex deputato del PD, Luca Pastorino.

Per Renzi sembrava fatta. Aveva avuto la sua scissione a sinistra, in una regione “tranquilla” per il PD, nella quale il centro-destra perdeva qualche pezzo e versava nella confusione più totale. Non restava, a Renzi e alla Paita, che prepararsi a raccogliere la copiose messi di voti moderati in fuga da Salvini e dal suo candidato e clone ligure Edoardo Rixi.

Nessun dirigente del centro-destra, nazionale o locale, pensava seriamente che in Liguria ci fosse partita. Nessuno, tranne un simpatico giornalista dal viso tondo e rassicurante, di nome Giovanni Toti, da poco uscito dalle televisioni Mediaset per diventare consigliere politico di Silvio Berlusconi

Lui ci ha creduto, ed ha convinto Berlusconi. Forza Italia ha chiesto ed ottenuto dagli alleati la candidatura di Toti. Non ha fatto gran fatica: candidarsi a perdere era una cosa alla quale nessuno aspirava. Il serafico Toti si è trasferito armi e bagagli in Liguria, accolto da un coro di disapprovazione, di proteste, di ironie. I più benevoli, anche qui all’Inferno, si chiedevano chi gliela facesse fare.

Quale situazione migliore? Un candidato imposto dall’esterno a un centro-destra sfiduciato e deluso, una candidata PD la cui verginità politica era garantita dalla scissione della sinistra.
E invece, ecco l’amara sorpresa: l’arrembante candidata renziana non ha preso un voto che sia uno fra i moderati, e ne ha persi moltissimi a sinistra.

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Una parte fondamentale del merito è certamente di Giovanni Toti, per averci creduto sempre. Con la sua aria rotondetta e rassicurante (quando era in Mediaset i suoi amabili colleghi dicevano che si distingueva dal Gabibbo solo per il colore), con la sua eterna e poco berlusconiana sigaretta fra le labbra, con i suoi toni seri e pacati, ha dimostrato di essere il classico pugno di ferro in guanto di velluto. Ha gestito con intelligenza da politico consumato una situazione difficile, è apparso il più credibile, il più serio, il più coerente, e anche il più preparato (un buon giornalista studia prima di scrivere e di parlare) fra i candidati.

Ma questo è solo un aspetto del problema. Quello grave, dal punto di vista del PD, è il fallimento del modello ligure. Piaccia o non piaccia al leader, i suoi candidati smart non prendono un voto nel centro-destra (l’umiliante sconfitta di Alessandra Moretti in Veneto ha portato il PD al minimo storico), mentre vincono gli altri, i suoi peggiori nemici. Vince Emiliano, che teorizza l’apertura ai grillini (l’opposto della strategia di Matteo), vincono gli uomini del vecchio PD, PDS, PCI, i De Luca e i Rossi, cresciuti a ciclostile e salamelle alle feste dell’Unità.

Il mondo a cui apparteneva la famiglia di Raffaella Paita, peraltro: quando era bambina i suoi genitori, ferventi militanti del PCI, sacrificavano le vacanze per andare a lavorare da volontari alla feste di partito, portando con sé la piccola Raffella. In effetti comprendiamo benissimo come quei traumi infantili l’abbiano segnata a fondo. Eppure se la rampante Raffaella avesse seguito l’esempio paterno, oggi forse staremmo raccontando un’altra storia.
Quella di oggi ha sepolto, forse per sempre, il partito della Nazione.

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Serenus Zeitblom