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ANSA/MASSIMO PERCOSSI
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Fratelli di Giorgia Meloni

Il partito sta crescendo nei consensi ed ora in molti vogliono salire sul carro del vincitore

Oplà. Dal cilindro sono sbucati i Fratelli d’Italia. «Ci dicevano che non saremmo mai usciti dal Raccordo anulare, adesso siamo il quarto partito italiano» gongola il proconsole di Giorgia Meloni. È passata, nel giro di pochi mesi, da residuale a determinante. «La Marine Le Pen della Garbatella», sfottevano gli avversari. Ora riceve il baciamano del premier ungherese Victor Orban, vessillifero dei sovranisti europei, accorso un mese fa ad Atreju, incontro meloniano per eccellenza. A cui, in verità, ha partecipato anche Giuseppe Conte, presidente del Consiglio italiano. Dettagli, ma sintomatici. Corroborati da sondaggi in crescita, successi elettorali e profferte di parlamentari. Alla Camera si sono fatti avanti in dieci. «Ma il tempo dello scouting è finito: ora c’è selezione all’ingresso» maramaldeggia il maggiorente di Fratelli d’Italia. Gli interessati s’avvicinano e sibilano: «Cosa ci sarebbe per me?». Non sono solo forzisti, allarmati dalla dissoluzione azzurra. Ma anche grillini, che malvedono la virata a sinistra.

Non a caso, l’ultimo innesto alla Camera è proprio un ex onorevole pentastellato: Davide Galantino. Prima era stato il turno del presidente del Potenza calcio, Salvatore Caiata, pure lui eletto con il Movimento. Mentre dalle file azzurre, a fine agosto, è arrivato il deputato bolognese Galeazzo Bignami, pedina decisiva per le elezioni in Emilia Romagna. Grillini e forzisti, insomma. Non a caso i due bacini da cui attingere. Ma si spera anche in un travaso leghista. «Matteo Salvini potrebbe pagare i suoi tentennamenti agostani» gongola l’accorto consigliere. Può darsi. Per adesso però il Capitano sembra non aver pagato lo scossone estivo, che l’ha disarcionato dal governo. O meglio, il pegno è stato lieve.

Di certo la crescita degli alleati ridisegna il centrodestra. La «signora Meloni», come la chiama Silvio Berlusconi malcelando supponenza, nelle rilevazioni ha ormai staccato la debilitata Forza Italia. Perfino Alessandra Ghisleri, sondaggista di fiducia del Cavaliere, ha certificato il sorpasso. E Cambiamo, nuova creatura del governatore ligure, Giovanni Toti? Non sembra per adesso destinata a far sfracelli: 0,8 per cento.

Così, i delusi tifano Giorgia. La famigerata forchetta balla tra l’8 e il 10 per cento. Quasi il doppio ripetto alle Politiche del 2018, che comunque ha portato in dote una cinquantina di arcigni parlamentari. Per non parlare delle precedenti elezioni del 2013, qualche mese dopo la nascita del partito: un irrilevante 1,97 per cento.

Già. Quella di Meloni sembrava l’ennesima traversata nel deserto. Tutto comincia nel 2009, quando il Pdl fagocita Alleanza nazionale. Il «che fai mi cacci?» dell’allora leader Gianfranco Fini scatena una guerra termonucleare. I suoi seguenti inciampi sembrano sancire la fine degli orgogliosi eredi dell’Msi di Giorgio Almirante. Alla fine del 2012 nasce però Fratelli d’Italia. Alla guida s’affaccia un triumvirato. C’è una vecchia volpe, come Ignazio La Russa. E poi ci sono «il gigante e la bambina»: Guido Crosetto e, appunto, Meloni. «Una ragazzina» sghignazzano gli ex finiani. «Si schianterà». Errore. Sono loro a essere spariti. E adesso quel drappello punta a eguagliare i frangenti più fastosi di An. Ovvero, attestarsi attorno al 12 per cento.
L’ascesa è cominciata lo scorso febbraio, con le elezioni regionali in Abruzzo. Il senatore Marco Marsilio viene eletto governatore. Il partito sfiora il 7 per cento. Poco meno di quanto inaspettatamente raccolto alle seguenti alle elezioni europee, a fine maggio. Quando si celebrano anche le amministrative. I sovranisti ottengono due sindaci. Ad Ascoli. E a Cagliari, dove vince Paolo Truzzu. Cosi i primi cittadini due anni fa erano appena una trentina, adesso sfiorano i cento. Tra i più in vista ci sono quelli dell’Aquila e di Pistoia. Il centroattacco è però Salvo Pogliese, alla guida di Catania. Un acchiappavoti forzista, classe ’72, per mesi corteggiato dalla Lega. Ma quest’estate Pogliese, ex missino e annino, torna all’ovile: ora è coordinatore regionale del partito.

La stessa parabola di Bignami, un altro figliol prodigo. Pure lui è stato un attivo dirigente di Azione giovani, il movimento dei virgulti di An, già guidato da Meloni. Viene da lì quasi tutta la classe dirigente. A partire dai fedelissimi degli esordi: l’europarlamentare Carlo Fidanza, il deputato Andrea Delmastro e il capogruppo alla Camera, Francesco Lollobrigida. Così come Giovanni Donzelli, responsabile organizzativo e uomo macchina delle campagne per le regionali. Tornate elettorali che potrebbero riservare altre soprese.

Le trattative con gli alleati, al di là di qualche refolo di tatticismo, sono chiuse. Meloni ha ottenuto la candidatura a governatore in due regioni. In Puglia si prepara a schierare l’eurodeputato Raffaele Fitto. L’ex forzista ha guidato la Regione fino al 2005. Il ritorno al passato non sembra entusiasmarlo, viste le beghe giudiziarie da cui è uscito indenne e l’amato ruolo di vicecapogruppo dei Conservatori a Bruxelles. Ma alla fine sarà costretto a immolarsi alla causa pugliese. E potrebbe beneficiare delle tenzoni giallorosse. Con gli alleati romani che tentano di far desistere dalla ricandidatura l’attuale presidente Michele Emiliano, dem ingombrante e malvisto dai grillini.
Nelle Marche il prescelto è invece un ex An: Guido Castelli, per dieci anni sindaco di Ascoli, ora responsabile nazionale delle Autonomie locali. Ma il partito è alle grandi manovre pure in Umbria, dove si vota tra qualche giorno, il 27 ottobre. Due mesi fa sono arrivati due consiglieri regionali. Tra cui l’ex capogruppo leghista, Emanuele Fiorini, il principale artefice della crescita del Carroccio in Umbria. Anche in Veneto, che andrà alle urne nella prossima primavera, si registra un significativo approdo: l’ex forzista Elena Donazzan, assessore all’Istruzione e al lavoro della Regione.
Insomma, si punta tutto sui mitologici «territori»: da sempre l’Eldorado della politica italiana. Le elezioni nazionali d’altronde sono rinviate a data da destinarsi. I giallorossi restano incollati al potere, come i ricci ai fondali. E l’elezione del presidente della Repubblica, prevista nel 2022, allontana il giorno del giudizio. I meloniani ci scherzano su: «Dopo sette anni d’inferno, possiamo passare anche qualche anno di purgatorio prima d’arrivare al paradiso».
La verità è più sfaccettata. «Il potere è tentatore, ma solo l’opposizione è gratificante» diceva quel politico francese. L’aforismo s’attaglia a Fratelli d’Italia. Hanno fatto dell’isolamento virtù. Mai al governo, a differenza di Forza Italia e Lega. Coerenza e arcitalianità: ecco i valori da rivendere all’elettorato. E una leader che si lascia alle spalle il ruolo da urlatrice di destra. Adesso sfodera sarcasmo e nervi saldi. L’ultimo duello con la madama più indisponente e schierata della tv l’ha consacrata: «Lei dice sciocchezze» rintuzzava Lilli Gruber, vestale della sinistra. E lei, pronta: «Non si permetta. Sono stufa di quest’atteggiamento». Segue pressante invito ad argomentare. Ma la conduttrice abiura. «Giorgia la burina» che asfalta «Lilli la rossa». Per lei nulla sarà più come prima.
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Antonio Rossitto