L'idea di partito di Stefano Fassina
ANSA/ MASSIMO PERCOSSI
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L'idea di partito di Stefano Fassina

Una coalizione di sinistra con Sel guidata da Maurizio Landini. Con lui Civati, Cofferatti, Pastorino. Ma i "big" del Pd non lo seguiranno

"Non ci sono più le condizioni per continuare". Con questa frase, due giorni fa, Stefano Fassina ha detto addio al Pd. Lo ha fatto un po' in sordina, sotto un cielo plumbeo, tra raffiche di vento, di fronte a uno sparuto gruppo di militanti riuniti a Centocelle, periferia romana dove alle parlamentarie del dicembre del 2012 l'ex viceministro dell'Economia del governo Letta prese gran parte delle 11mila preferenze che gli permisero di essere eletto in Parlamento due mesi dopo.

Intervistato oggi da Repubblica, Fassina spiega che la sua decisione non dipende dal fatto che a guidare il Pd ci sia un leader come Matteo Renzi che da quando è diventato segretario, vincendo legittimamente un congresso e battendo alle primarie il suo predecessore Pier Luigi Bersani, ha cambiato i connotati del suo partito portandolo su posizioni sempre più centriste e liberiste. No, Fassina dice, piuttosto, di non condividere praticamente nulla dell'impostazione culturale del Pd, dal Lingotto fino a oggi. Tanto che viene da chiedersi come mai nel 2007 abbia aderito a qual partito, prestandosi addirittura a diventarne un esponente di spicco, responsabile del settore economico durante la segretria Bersani e vice ministro nel governo di larghe intese (con il centrodestra) guidato da Enrico Letta.

Un nuovo partito a sinistra

Meglio allora dividersi per tempo (lo sport preferito dalla sinistra) e, proprio mentre la destra si ricompatta, convocare già per il prossimo 4 luglio (data simbolica che richiama l'”Indipendent day” americano) una convention di ex Pd, e non solo, per dare il via a un “percorso per costruire un'alternativa vera a sinistra”. L'idea sarebbe quella di un soggetto unico insieme a Sel che guardi a Maurizio Landini come possibile leader. Dentro anche gli altri fuoriusciti Pippo Civati, Luca Pastorino, Sergio Cofferati, Monica Gregori, che ha lasciato insieme a Fassina, forse Michela Marzano e Corradino Mineo. Meno allettato dall'idea Walter Tocci mentre, nonostante il malessere diffuso, il resto della minoranza che fa capo ai vari Bersani, Speranza Cuperlo, D'Attorre, Bindi non ci pensa proprio a fare a Renzi il favore di levarsi dai piedi lasciandogli carta bianca.

I motivi della rottura

La verità è che il disagio di Fassino è iniziato esattamente con l'ascesa di Renzi alla segreteria e il suo arrivo a Palazzo Chigi. Ma se è esploso proprio adesso un motivo ci deve essere e nessuno crede che possa coincidere sul serio con la decisione del governo di imporre la fiducia sul maxiemendamento che riscrive la riforma della scuola e che sarà votata oggi al Senato. Si sarebbe capito di più se Fassina, per formazione e storia politica, avesse rotto sul Jobs Act. Ma forse, quando nel dicembre scorso fu varata la legge che cancellava l'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, le elezioni politiche erano più lontane di quanto lo siano oggi e la minoranza dem sperava ancora di vincere la battaglia sull'Italicum e i capolista bloccati. Persa quella, da bravo economista Fassina deve essersi fatto due conti e capito di doversi scordare un posto tra i 100 ai quali Matteo Renzi garantirà la rielezione in Parlamento.

Le reazioni

Non è un caso che le reazioni all'uscita del bocconiano siano state, tutto sommato, piuttosto tiepide. Bersani si è limitato a un blando attentato di solidarietà: “Oggi il Pd è più povero”. Stop. Critico il vicesegretario Lorenzo Guerini: “Abdica alla sfida del cambiamento. Addirittura acido il presidente Matteo Orfini: “È stato viceministro sostenuto da Berlusconi. Perché se ne va ora?”. Insomma, l'ordine di scuderia in casa Pd sembra essere quello di far finta di niente e derubricare lo smottamento in atto a semplici scosse telluriche. Se n'è andato Fassina. Fassina chi?

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Claudia Daconto