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Elezioni subito? Per fortuna in pochi le vogliono

L'incertezza del risultato spinge per le elezioni nel 2018. E gli interventi sulla legge elettorale aiuteranno a evitare la finestra di giugno

C'è un partito delle "elezioni a giugno” e uno delle “elezioni nel 2018”. Il paradosso è che pur avendo sulla carta la maggioranza in Parlamento (Pd+M5S+Lega Nord+Fdi), il primo è di fatto diventato minoritario nel Paese. In parte perché nemmeno nelle forze politiche che teoricamente lo vorrebbero, la volontà di affrettare i tempi è così grantica e compatta. In parte perché, pur volendolo, non è detto che si riesca a centrare la finestra primaverile.

Paura dei risultati, per quasi tutti
Il risultato delle urne spaventa i più
e se le elezioni che, dopo la sentenza della Corte costituzionale sull'Italicum sembravano fatalmente anticipate al 2017, tornano ad allontanarsi, è anche perché in tanti cominciano a preoccuparsi del proprio futuro politico.

Appare inoltre tecnicamente improbabile che si faccia in tempo a votare già a giugno. Ci sarebbe la finestra autunnale, ma a ridosso della legge di stabilità chi vorrà affacciarsi sul serio?

L'analisi del dibattito sui social segnala un raffreddamento del clima intorno alla richiesta di andare subito al voto che si era alzata con forza all'indomani del risultato del referendum costituzionale. Gli elettori dem temono le ripercussioni che lo sfaldamento in atto nel Pd potrebbero avere in cabina elettorale.

Sebbene l'indice di gradimento personale del promotore dell'iniziativa scissionista in casa dem, Massimo D'Alema, non vada oltre il 3%, i sondaggisti stimano (e probabilmente sovrastimano) il soggetto politico alla sinistra dei dem al quale l'ex premier sta tentando di dar vita intorno al 10%. Mentre il segretario Matteo Renzi stenta a ritrovare, o a dar prova di aver ritrovato, la lucidità e la determinazione smarrite dopo la batosta referendaria.

Anche Grillo teme le elezioni
Le cose non vanno meglio per il Movimento 5 Stelle che negli ultimi giorni ha perso diversi punti. Se a Roma Virginia Raggi è passata dal 67% del giorno della sua elezione a sindaco al 41%, l'erosione di consensi si avverte anche a livello nazionale.

Nel tentativo di costruirle intorno una camicia di forza che da una parte ne impedisca ogni mossa autonoma, dall'altra la protegga dai colpi esterni ma soprattutto interni, Beppe Grillo sta minacciando chiunque: di querela i giornalisti, di espulsione e non ricandidatura i parlamentari malpancisti dei 5Stelle.

Ai quali, anche se pubblicamente non possono ammetterlo, sarebbe infondato poter attribuire un'incontenibile smania di rinunciare anzitempo al proprio seggio.

La legge elettorale
C'è poi la questione della legge elettorale. Secondo l'istituto Demos 7 italiani su 10 sono contrari ad andare a votare senza una legge che garantisca uniformità di risultati tra Camera e Senato e governabilità del Paese. Nessuno, insomma, vuole andare a votare al buio. La discussione verte al momento su quali modifiche apportare al cosiddetto Legalicum, ossia l'Italicum così come è stato modificato dalla sentenza del Consulta.

L'idea su cui si sta ragionando è quella di trasformare il premio alla lista in premio alla coalizione (con tutto ciò che questo comporterebbe in vista di future alleanze: da Pisapia ad Alfano passando per il Pd; e da Forza Italia a Fratelli d'Italia passando per la Lega Nord) e di estendere il premio nazionale per chi raggiungere il 40% alla Camera anche al Senato. Ma non è affatto detto che ci si arrivi.

Inoltre, ammesso pure che si giunga a un'intesa che metta tutti d'accordo, ciò che allontana inesorabilmente l'ipotesi di andare a votare il prossimo giugno, è il calcolo dei tempi.

Giovedì si riunirà la commissione Affari costituzionali della Camera con la relazione del presidente. La discussione vera e proprio però inizierà in Aula il 27 febbraio, ma solo a condizione che sia stato espletato, in tempi record (solo 17 giorni) l'intero iter delle audizioni, scelta del testo base, emendamenti, parere del governo e delle altre commissioni.

La discussione in Aula dovrebbe concludersi entro marzo, ma sempre a patto che ci sia arrivata davvero entro il 27 febbraio. Altrimenti il contingentamento dei tempi slitterebbe ad aprile.

A quel punto dovrebbero arrivare le dimissioni del governo e le dimissioni della Camera. Ammesso che ciò avvenga entro la fine di quel mese, resterebbero tra i 45 e i 70 giorni per votare.

Solo a Renzi
Se si dovesse cominciare a contare dal 30 aprile, la data dell'11 giugno sarebbe già sfumata. Come a dire: correndo all'impazzata si potrebbe anche fare, ma non è affatto così semplice come piacerebbe a Matteo Renzi. Il quale è circondato da una folta schiera di frenatori: nel Pd sono in tanti, anche tra i suoi non-nemici, a remare contro le elezioni anticipate.

Non le vogliono i ministri Delrio e Franceschini. Non le vuole Gianni Cuperlo che “fraternamente” gli ha suggerito di dimettersi e aprire al congresso, e nemmeno una figura di cui l'ex premier ha enorme considerazione come l'ex presidente della Repubblica Giorgio Napolitano.

Gli alleati di Ncd non ne vorrebbero nemmeno sentir parlare. Tra gli avversari è contrarissimo Silvio Berlusconi che conta sull'allungamento dei tempi per poter riottenere la candidabilità dalla Corte di Strasburgo.

Molti di loro sperano di convincerlo che nel 2018 le forze populiste, M5S in testa, saranno più deboli di oggi. Renzi però non lo crede affatto: il ricordo di come andò dopo il governo Monti lo assilla e se a ottobre il governo Gentiloni si ritrovasse costretto a fare una legge di stabilità senza più sconti da parte dell'Europa, per quanto oggi possa piacere l'attuale premier, il Pd ne pagherebbe senz'altro il dazio. Un timore che, benché fondato, non è affatto detto basti a piegare i fan del non-voto.

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Claudia Daconto